giovedì 26 gennaio 2012

LA BANDIERA EUROPEA!

Giovedì 10 luglio 2003 a Bruxelles fu presentata la bozza definitiva della Costituzione d’Europa. 
Si notò immediatamente che non erano state menzionate le radici europee nel Cristianesimo, provocando le (ben giustificate!) polemiche e la protesta della Santa Sede.
Ma alla base di tutto c’è tanta ignoranza.
Quella stessa costituzione, nel definire i propri simboli, ribadisce solennemente che la bandiera europea è azzurra con dodici stelle disposte a cerchio.
La bandiera dell’Europa –pertanto– è
lapalissianamente ispirata alla corona della Vergine
Ebbene
, sia i colori, che i simboli, che la loro disposizione in tondo, vengono direttamente dalla devozione mariana, sono esplicito omaggio alla Vergine.
Le stelle infatti sono quelle descritte nell’Apocalisse: “nel cielo apparve un segno grandioso: una donna vestita di sole con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle” ( Ap 12,1-2).
Quella donna vestita di sole, per la tradizione cristiana, è la Madre di Gesù.
Anche i colori derivano da quel culto: l’azzurro del cielo e il bianco della purezza verginale. Nel disegno originario infatti le stelle erano d’argento e solo in seguito hanno preso il colore d’oro.
Insomma, anche se ben pochi lo sanno, la bandiera che sventola su tutti gli edifici pubblici dell’Unione Europea sono invenzione di un pittore che si ispirò alla sua fervente devozione mariana.
(ma non ditelo dell'Alta Corte Europea per i diritti dell'uomo di Strasburgo che –accogliendo il ricorso presentato da Soile Lautsi sancì di togliere i crocifissi cattolici dalle aule scolastiche).
La vicenda inizia nel 1949 quando a Strasburgo fu costituito un primo “Consiglio d’Europa” e l’anno dopo il Consiglio bandì un concorso aperto agli artisti europei per una bandiera comune.
Alla gara partecipò Arsène Heitz, che – come molti cattolici – portava al collo la “Medaglia Miracolosa” coniata in seguito alle visioni di santa Catherine Labourè.
Arsène Heitz nutriva una speciale venerazione per l’Immacolata. Il bozzetto, con sua sorpresa, vinse il concorso, perché il presidente della commissione (che non conosceva le origini del simbolo) fu profondamente colpito dai colori.
In una prospettiva di fede è felicemente simbolica questa unione di richiami cristiani ed ebraici.  Anche il numero delle stelle sembra collegare direttamente le due fedi: dodici i figli di Giacobbe e le tribù di Israele e gli Apostoli di Gesù.
Nel 1955 il bozzetto fu adottato definitivamente come bandiera della nuova Europa.
Dunque, il giudeo-cristianesimo, è indubbiamente nelle radici dell’Unione Europea.
A conferma dell’ispirazione biblica e al contempo devozionale del simbolo, il pittore riuscì a far passare la sua tesi, quando gli Stati membri erano ancora soltanto sei: sostenne che il dodici era, per la sapienza antica, un simbolo di “pienezza” e non doveva essere mutato neppure quando i membri avessero superato quel numero.
E questo è stato definitivamente stabilito dalla nuova Costituzione.
Poi ci sono altri dettagli: la seduta solenne nella quale la bandiera fu definitivamente adottata, nel 1955, si tenne in un giorno determinato (casualmente!!) solo dagli impegni politici dei Capi di Stato: quel giorno era un 8 dicembre, quando cioè la Chiesa festeggia la festa dell’Immacolata Concezione .
Che combinazione!!!!
O forse un segno discreto ma preciso affinché proprio Maria sia venerata da tutto il Continente come “Regina d’Europa

lunedì 23 gennaio 2012

Il sangue di mio figlio!


Era un tardo pomeriggio di un venerdì primaverile. Gwon era appena uscito dall’ufficio. Iniziava a pregustare un week-end tutto da dedicare alla sua famiglia.
Sintonizzò la radio nella sua stazione preferita, raccontavano di una strana influenza di tre persone in un lontano paese.
Non diede molta attenzione a quella notizia, cambiò subito stazione, era un venerdì pomeriggio... era finita un’intensa settimana lavorativa e voleva rilassarsi con un po’ di musica allegra.
Il lunedì, quando si svegliò, sentì in tv che non erano soltanto 3, ma erano già 30.000 i morti tra le colline remote dell'India orientale.
L’Istituto Superiore per il controllo della Sanità degli Stati Uniti, avevano già iniziato a svolgere le prime indagini preventive al riguardo.
Il martedì era diventata la notizia più importante della prima pagina di tutti i giornali.
I tg aprirono con vari servizi su questa epidemia.
Oramai non era solo circoscritta all’India, ma velocemente venivano a galla casi sospetti anche nel Nepal, Cambogia e Laos. La notizia s’era divulgata in tutto il mondo.
Nessuno capiva come era nata e quindi come la controllarla!
La chiamarono subito “l’influenza misteriosa”.
Il panico investì subito l’Europa che -per precauzione- decise di chiudere le frontiere .
Ignota anche la sintomatologia.
I telegiornali dicevano che per la prima settimana non ti rendi conto di averla, poi si scatena con dolori terribili alle articolazioni e …poi… dopo 2giorni muori.
La Spagna fu il primo stato a chiudere le frontiere a tutti i cittadini partiti da più di 1mese.
L’indomani, il presidente degli Stati Uniti spiegò alla popolazione la necessità di chiudere le frontiere, per evitare il contagio nel paese, almeno fino a quando non avrebbero elaborato la cura...
Nei giorni seguenti la gente si riuniva nelle piazze per pregare o per cercare di organizzare associazioni.
Una mattina, entrò in un locale un signore trafelato: “Accendete la tv e ascoltate la notizia!!”:
due donne erano morte a New York. Nonostante la chiusura delle frontiere e l’embargo, il virus era arrivato in U.S.A.
Ormai “l’influenza misteriosa” aveva contagiato il mondo.
Gli scienziati continuarono a cercare l’antidoto, però brancolavano nel buio più totale e sapevano che ogni secondo che passava, centinaia di persone erano infettate da virus.
Niente sembrava funzionare.
Da un laboratorio del Minnesota arrivò la notizia tanto attesa: era stato decifrato il codice genetico del virus. Si poteva iniziare ad elaborare un antidoto.
Ma per far questo c’era bisogno del sangue puro di qualcuno che non fosse stato mai infettato. La notizia si diffuse: tutti corrvano all’ospedale più vicino per fare degli esami del sangue.
Gwon andò con tutta la famiglia. Con lui anche i suoi vicini.
Un misto di paura e speranza s’impossessò di tutti domandandosi: "che cosa succederà? Sarà così che finirà il mondo?"
All’ospedale, dopo gli esami, uscì un dottore gridando un nome. Il più piccolo dei figli di Gwon afferra il papà per il giubbino e dice: “Papà… perché hanno detto il mio nome!”.
Prima che Gwon potesse reagire, gli tolsero suo figlio da vicino.
Lui gridò: “ASPETTATE!...” o forse ebbe solo la sensazione di gridare.
Infatti quelle parole rimasero impigliate fra le sue corde vocali.
Li seguì. I dottori –con il figlio di Gwon per mano – risposero: “Il suo sangue è pulito, il suo sangue è puro. Siamo salvi. Tutto andrà bene…”.
Dopo 5 minuti i dottori uscirono gridando e ridendo.
Ed era la prima volta che si sentiva ridere o anche sorridere qualcuno in quella settimana.
Il dottore più anziano si avvicinò a Gwon e disse: “Grazie, signor GWON! Il sangue di suo figlio è purissimo, si può fare l'antidoto.. siamo davvero salvi!”.
La notizia si divulgò in pochi secondi in tutto il mondo.  
Qualcuno piangeva, altri gridavano di felicità.
Allora il dottore si avvicinò a Gwon e disse: “Possiamo parlargli per un momento? È.. che …beh …non potevamo sapere che il donatore ….sarebbe stato un bambino e ….beh … sa… per questioni burocratiche… la privacy …etc … sa com'è, abbiamo bisogno che firmiate queste carte per donare il sangue di vostro figlio”.
Mentre legge il foglio gli viene in mente che in più di dodici pagine non è specificata la quantità di sangue e allora chiese: “ma dottore, quanto sangue verrà tolto?”.
Il sorriso del dottore si appannò sul suo viso come il sole attraversato da una nube scura.
Il dottore deglutì e rispose tutto d’un fiato, guardando un punto indefinito avanti a sé fuori dalla finestra: “Noi non pensavamo che sarebbe stato un bambino.
Noi non eravamo preparati.
Noi lo dobbiamo usare tutto!...”
Gwon cercò di reclamare: “come tutto? … ma scherziamo? … no...”.
Il dottore non lasciò tempo: “forse lei non ha inquadrato la questione…. Suo figlio è l'unico con il sangue non contaminato!! Lo capisce, stiamo parlando della cura per tutto il mondo? Per favore …la prego… in nome della scienza! firmi, noi abbiamo bisogno di tutto il sangue di suo figlio...”
Allora Gwon chiese: “però … non potete fargli una trasfusione?”
E la risposta fu: “sì, se trovassimo altro sangue puro lo faremo... altro sangue puro e compatibile con il gruppo Rh di suo figlio”
In silenzio Gwon non sente più le dita della mano che stringono la penna.
FIRMI. La prego!”
Poi sente: "Vuole vedere a tuo figlio?"
Cammina fino alla sala di emergenza.
Nel corridoio lo raggiungono la moglie e una figlia.
Arrivano alla sala.
Il figlio seduto sbarrò gli occhi: “Papà! Mamma! Ma che succede?
Gwon prese la sua mano e cercando di sorridere disse: “Figlio mio, tua madre e io ti amiamo tantissimo, lo sai? Ti amiamo e mai permetteremo che ti avvenga qualcosa che non sia necessario, capisci questo?”
E quando ritornò il dottore disse: “Mi dispiace …ma dobbiamo incominciare presto, persone in tutto il mondo stanno aspettando”...

Che avresti fatto, tu, mentre tuo figlio, su un lettino ti dice: ”Papà… Mamma… perché mi abbandonate?..”
Tu … tu che ora leggi queste righe … te ne saresti andato?
Tu avresti potuto voltare le spalle e lasciare tuo figlio lì?....
Beh … siamo sinceri, Gwon poteva dire, “al diavolo l’influenza misteriosa… ora me lo porto in casa… lo chiudo in una stanza sicura… mio figlio deve vivere … mi spiace per il resto del mondo”.

Gwon non ce la fa. E non puo’ fare altro che salutare suo figlio che s’allontana nella barella.
La settimana dopo, predispose una cerimonia funebre per onorare tuo figlio, che aveva salvato tante vite.
Ma c’è poca gente.
È una bellissima giornata.
Qualcuno che dormiva a casa sua, altri preferirono andare a passeggiare o vedere una partita di calcio.
Altri vennero alla cerimonia, con un sorriso falso e facendo finta di essere interessati. Ma poi scalpitavano e guardano l’orologio ripetutamente.

Gwon avrebbe voluto fermare tutta la cerimonia e gridare: “forse non ve lo ricordate più, ma… mio figlio è morto per voi!!!! Per caso non vi importa?...”

Ecco… a volte è proprio questo quello che Dio ci vuole dire: “Forse non ti ricordi più che mio figlio è morto per voi. Non riuscite a capire quanto vi amò?

È curioso vedere come è semplice per le persone prima rifiutare Dio, e dopo chiedersi perché il mondo va di male in peggio.

È curioso vedere come crediamo ciecamente a tutto quello che leggiamo sul giornale, però siamo pronti a contestare anche le virgole di quanto sta scritto sulla Bibbia.
È curioso come ci sforziamo –giorno dopo giorno– ad accumulare beni terreni e non ci dedichiamo neanche un minuto a fare tesoro delle cose celestiali.
È curioso come qualcuno dice: “Io credo in Dio”, però poi con le sue azioni dimostra che segue ben altri scopi.

È CURIOSO, VERO??
Più curioso è vedere un cristiano così fervente la domenica, ed essere poi un cristiano invisibile il resto della settimana.
È curioso che quando finisci di leggere un articolo di gossip o una partita della tua squadra, sei pronto a commentarlo con tutti gli amici e i colleghi di lavoro e il lunedì non senti la stessa necessità di commentare la Parola della domenica, semplicemente perché … beh non sei sicuro di quello che loro credono, hai paura di urtare la loro sensibilità o… hai paura di ciò che andranno a pensare di te.

È curioso che noi ci preoccupiamo di quello che la gente pensi di noi, piuttosto di quello che DIO pensi di noi.
È CURIOSO, VERO??

giovedì 12 gennaio 2012

L'ESISTENZA DEI BARBIERI E DI...DIO

Un giorno un uomo entrò in un negozio di barbiere per tagliarsi i capelli.
Mentre il barbiere svolgeva il suo lavoro, come spesso capita, si parlò di mille cose.
La discussione arrivò subito all’argomento “DIO”.
Il cliente espresse la sua fede certa.
Il barbiere disse: «Io invece non credo nell’esistenza di Dio».
E potrei facilmente dimostrarle questa mia idea con mille esempi.
«Basta solo uscire in strada e lei può vedere che Dio non esiste.
E se esistesse non arebbe affatto onnipotente come dice di essere.
Ad esempio, se Dio esistesse, perché ci sono così tanti malati?
Se Dio esistesse perché tanti bambini muoiono affamati, abbandonati?
Se Dio esistesse non ci sarebbe così tanta sofferenza e tanto dolore nell’umanità.
Che bisogno abbiamo di un Dio che permette tutte queste cose?».
Il cliente restò in silenzio pensieroso.
In realtà voleva solo evitare di rispondere per ingigantire la discussione.
Al termine del taglio dei capelli, il cliente pagò, salutò ed uscì dal negozio.
Non aveva fatto che pochi passi quando vide un uomo con barba incolta e capelli lunghi.
Si fermò.
Chiamò quell'uomo con barba e capelli lunghi e lo invitò ad entrare insieme a lui dal barbiere.
Il cliente rivolgendosi al barbiere esclamò: «La sa una cosa? Ho la dimostrazione che i barbieri non esistono!!!»
Il barbiere con aria supponente rispose: «… e io allora secondo lei che cosa sarei?»
«Ne son certissimo: ripeto: i barbieri non esistono!!» fece il cliente «Lo vede quest’uomo? Se i barbieri esistessero davvero, non ci esisterebbero persone con i capelli e la barba lunga come quest’uomo. Quindi I BARBIERI NON ESISTONO!!!»
«Ma che sciocchezza dice!!!» replicò il barbiere «I barbieri esistono, ma i tipi come quello lì non vengono mai da me!»
«Esatto!!!» disse sorridendo il cliente «Lei ha centrato il punto: Dio esiste, ma ci sono persone che si rifiutano di andare a cercarlo. Ecco perché in giro c’è tanto dolore e miseria!!»

martedì 10 gennaio 2012

"STUDIARE" NON ACCETTA L'IMPERATIVO. COME AMARE!

Per Sigmund Freud ci sono tre mestieri difficili: insegnante, politico e terapeuta.
In questo articolo oggi  vorrei parlarvi della prima categoria.
Alzi la mano chi, nel corso dell’iter scolastico, non si è imbattuto in qualche docente con un gran talento: quello di far passare la voglia di studiare e mandare all’aria tutti i libri?

Per questo parlano molto chiaro i numeri delle statistiche sulla popolazione degli studenti all’Università.

  • percentuale di studenti che interrompono gli studi prima della laurea: 25%;
  • percentuale di studenti che si laureano nei tempi previsti: 14,5%;
  •  percentuale di studenti fuori corso: 43% (di cui: 32% sfora di 2anni; per il 40% il ritardo è di 5anni; il 28% supera i 5anni!)

Sono tutti scansafatiche? Certo, una fetta considerevole lo sarà. C’è sempre qualcuno che “prova” ad iscriversi all’università! È anche vera la diffidenza verso le statistiche che Trilussa ha spiegato benissimo con il sonetto del pollo-e-mezzo! Ma inequivocabilmente ci indicano un trend!

Il prof. GianCarlo Nivoli, ex docente di clinica psichiatrica all’università di Sassari ed autore del libro “Sopravvivere all’università” (2002, Centro Scientifico Editore) affermava che “quarant’anni di attività accademica” lo portano "a puntare il dito verso i docenti per gli scricchiolii del mondo dell’istruzione".

Non si ferma lì!

Dall’alto della sua competenza professionale afferma che tali colpe spesso “sono dovute alle loro psicopatologie”.

Il prof. Nivoli ha elencato cinque tipologie di docenti pericolosi, tra cui il narcisista ed il sadico.

Il narcisista trova ogni occasione per alludere e richiamare ripetutamente le sue ricerche, nonché le sue amicizie altolocate del settore. È sempre stato il più bravo.

Poi c’è il sadico: degno successore di Margherita Goundam, la maîtresse parigina inventrice della “sedia di contenzione” per clienti sadici. Quest'ultimo inchioda lo studente all’esame, lo umilia per gli errori (meglio se in pubblico!), gode delle sue incertezze, additandolo come “fellone” se lo studente propone di ripresentarsi all’appello successivo.
Purtroppo questa è solo la punta di un iceberg sulla quale ogni anno tanti “Titanic” vanno disintegrarsi!

Chi diventa professore, subisce poi quello stesso meccanismo secondo il quale per gli psichiatri, un bambino vittima di violenze e maltrattamenti diventerà un padre violento. Inconsciamente vorrà far subire ad altri quanto lui stesso ha subìto!

Se poi si aggiunge la crisi di panico che si scatena quando ci si “accomoda” sulla sedia per essere interrogato, la frittata è bell’e fatta!

Io a malapena ricordavo il mio nome, cognome e il luogo dove mi trovavo!

Io venivo, quindi, valutato non per quello che sapevo, ma per quello che riuscivo “a far credere” di sapere. E questo per molti studenti è un dramma.

Un criterio valutativo, ahimè, affidato a ciò che “sembra”, non a ciò che “è”!

È come giudicare una persona, stando affacciati alla finestra, in conformità a come è vestita o all’auto che guida.

Ovvero la solita vecchia storia (ma quanto mai in vigore) dell’ESSERE e dell’APPARIRE.

Qualche volta in sede d’esame mi è stato detto: “mettiti nei nostri panni!”.

Perfetto!! c'è però un punto: mentre io, professore, non lo sono mai stato, loro, invece, sono stati necessariamente studenti. Pertanto, io non posso mettermi nei loro panni, mentre loro possono (e devono, o dovrebbero) mettersi nei panni studenteschi!

Ritengo di poter affermare che, per superare brillantemente un esame occorre soprattutto “saper vendere bene la propria merce”! Io, invece, a causa della mia emozione, ero costretto a ritornare a casa con una preparazione eccellente e senza voto nel libretto.

Ma le storture cominciano ben prima dell’università.


Daniel Pennac nel suo “Come un romanzo” afferma che il verbo “leggere” non gradisce l’imperativo. Come d’altronde il verbo “amare”, “sognare”, “studiare”…

Questo concetto però non è stato colto da chi s’interessa di Istruzione (di ogni ordine e grado!). L’amore per la lettura e per lo studio segue le stesse regole dell’amore tra due persone.

Proviamo ad immaginare questa scena:

Esterno.
Pomeriggio.
Su una panchina di un parco si trovano seduti un ragazzo ed una ragazza. “AMAMI! dice lui!
 

È forse credibile?
Possiamo forse imporre un sentimento?
Certo che no!

Bisogna invece creare le “condizioni per amarsi”.
Il ragazzo metterà in atto una serie di azioni e comportamenti affinché la ragazza decida spontaneamente di amarlo!

Lo studio o la lettura richiedono lo stesso “meccanismo”: stimolare lo studente a leggere quel romanzo, quella poesia. Nelle scuole invece i più grandi capolavori della letteratura vengono sottoposti a torture atroci con l’obbligo della lettura.

Capolavori come l’Eneide, l’Odissea, la Divina Commedia, i Promessi Sposi vengono infilati nel tritacarne dei commenti e delle versioni in prosa di torme di studenti, trasformati in filastrocche degne di una recita di Natale:
“eifusiccomeimmobile/datoilmortalsospiro/stettelaspogliaimmemore/orbaditantospiro”.

Proviamo poi a chiedere a questi studenti cosa volesse dire il Manzoni con quelle parole!!!

Non si insegna ad assaporare il senso della bellezza di una poesia. “Interrogato sulla poesia”. Che contraddizione!

Come dire: obbligato a dimostrare amore!

Ecco come uccidere la poesia!

A scuola ci si va per prendere un voto. Tutto questo è agghiacciante.
 

Se entro in una libreria, girando fra gli scaffali verrò attratto dalle copertine o dal titolo di qualche volume (ecco che ancora si ripresenta una similitudine con l’amore tra due persone: se vedo una bella ragazza, prima di sapere se è intelligente, simpatica, oca, svampita, rimarrò attratto dall’aspetto fisico) quindi lo sfoglierò e verificherò se anche nei contenuti sommari è avvincente come la copertina.

Avete presente la copertina o il titolo di un libro di testo alle superiori o all'università? Provate a ricordare qualche titolo. “Lezioni di…”, “Manuale di….”

E le copertine? Non si va oltre il grigio, beige, e bianco con al centro il titolo…
Evviva l'originalità...

Volete la controprova? Prendete un classico in uso nelle scuole secondarie (l’Eneide, l’Odissea, la Divina Commedia, i Promessi Sposi) e lo stesso classico comprato in una libreria…

Nel secondo caso la copertina sarà molto più spartana, austera, triste: lo studente deve studiare, non divertirsi!


Quei libri sono ideati col solo ed unico scopo di essere studiati (…non letti!) dallo studente.

Quel libro non serve allo studente per approfondire la propria conoscenza ma solo per consentirgli/le di superare l’esame.

“Molti libri sono stati scritti non tanto perché leggendoli venga trasmesso il sapere dell’autore, bensì per far sapere quanto grande fosse il sapere dell’autore”. Questa potrebbe essere la posizione di uno studente frustrato, invece è l’opinione di un certo Wolfgang Johannes Goethe.

La quasi totalità dei libri parte dal presupposto: “IO SO E SCRIVO, TU NON SAI E STUDIA!”



I libri letti liberamente danno libertà (vi siete mai soffermati sul termine latino di “libro” e “libero”? entrambi sono “liber”. Sarà solo una coincidenza?)

Un libro regala sempre la patente di fantasia al lettore.
Immagina la scena, integra la descrizione di quel paesaggio, dei lineamenti di quel personaggio, con particolari differenti per ogni lettore. Forse le copertine grigie, i titoli asettici servono come agenti di polizia per sequestrare quella patente di fantasia.

A scuola la fantasia non può e non deve esistere!


Il tasto dolente però è l’università!

Anni fa Stenio Solinas ne“il Giornale” fece un’interessante inchiesta sulle università da cui scaturirono elementi molto interessanti.

Oramai le università sono solo “stazioni ferroviarie e aeroportuali per i professori, dove tra un treno (o un aereo) e l’altro svolgono lezioni, e nelle quali gli studenti cercano di intercettarli “al volo”.

Possiamo forse parlare di “trasmissione di sapere”?? Certo che no.

I professori sono rimasti all’epoca di “Lascia o Raddoppia?” dove io studente devo essere valutato per ciò che riesce a dimostrare di sapere in una manciata di minuti e non per ciò che effettivamente sa!
 

Per Stefano Zecchi, ordinario di Estetica all’università Statale di Milano sono solo “un esamificio”, un “liceo di 2° categoria”.


Come si può valutare la preparazione di uno studente in poche domande?
Come si può valutare in 20/30 minuti la preparazione di uno studente durata almeno 4/5 mesi?

L’università è un pianeta a sé, con proprie leggi fisiche e temporali:
l’anno dura sei mesi; il mese tre settimane;
la settimana quattro giorni; l’ora dura 45minuti…


Immaginiamo di trovarci all’aeroporto di Stansted (Londra) per uno scalo tecnico e che la sosta si protragga per 7/8ore.

Decidiamo quindi di approfittare per arrivare a Londra!

Visitare Londra in 8ore? Impossibile!

Però possiamo affidarci ad un taxi e farci un “giro panoramico”.

Certo, non potremmo fermarci in nessun luogo. Vedremo tutto dal taxi.

Oppure  potremmo affittare un elicottero (utopisticamente per i comuni mortali, ma come esempio può essere funzionale!) per una visione panoramica.
Anche in questo caso, non potremmo vedere dettagliatamente nessun luogo, ma avremmo una visione globale della città inglese.
Se poi Londra ci colpirà e vorremmo visitarla meglio… beh, allora dovremmo fermarci almeno per una settimana.



Allo stesso modo, per un esame.
Impossibile conoscere e verificare in dettaglio la preparazione di uno studente in pochi minuti. Dobbiamo optare per la “visita in taxi” o “la visione panoramica dall’elicottero”.

Per una “visita accurata”, ovvero una verifica approfondita della preparazione dello studente, non resta che elaborare l’equivalente del soggiorno di una settimana, che nel nostro caso può essere una tesina, delle verifiche lungo l’intero corso delle lezioni…

Ma col taxi possiamo avere “intoppi”: ad esempio il traffico.
Allo stesso modo, possiamo trovare “traffico” nell’esame! Ovvero l’ansia, il panico, lo stress che può impedire allo studente di dimostrare ciò che effettivamente sa!



Ripetere è molto facile (lo fanno anche i bimbi alla scuola materna con le poesie), ben diverso è “sapere”… e gli studenti (volponescamente!) si sono adeguati a questo metodo di studio!
Il target è solo superare l’esame, non conoscere la materia.

Il combustibile non è la voglia di sapere, ma la speranza di trovare il modo di “far credere di sapere”…



È il cane che si morde la coda.
Negli insegnanti manca il sacro fuoco della trasmissione del sapere, e come giusto corollario, gli studenti manca il sacro fuoco della voglia di sapere.

Se gli insegnanti fossero animati dalla passione per la materia, parlerebbero con trasporto e con fervore scatenando interesse negli studenti. Come Platone nel "Simposio", ad esempio.
Le lezioni sarebbero coinvolgenti e i 45minuti volerebbero…

Invece al di qua della cattedra c’è il trasporto tipico dell’impiegato statale che aspetta (come il rag. Ugo Fantozzi) l’ora di uscita; al di là della cattedra non potrà che avere come risposta una serie di sbadigli!

La conclusione dell’inchiesta di Stenio Solinas è che l’università è morta.
Tra i mandanti troviamo l’impunibilità di un corpo docente non sottoposto ad alcun controllo e l’impossibilità di un ricambio!

Raffaele Simone, ordinario di Linguistica Generale a Roma fu molto lungimirante: dodici anni fa scrisse un pamphlet “L’università dei tre tradimenti”.
Una requisitoria fine e acuta che non lascia scampo.
Egli accusava l’università di tradimento nei confronti degli studenti (non selezionati, non curati e abbandonati al loro destino);
verso lo Stato (per il disordine e la confusione in cui l’università sguazza);
verso la ricerca che permette vere emorragie di cervelli, ma non agevola un afflusso nelle nostre università.
Tanti laureati vanno all’estero per la specializzazione, nessuno viene in Italia!


Non posso che concludere quindi con un’altra frase di Wolfgang Johannes Goethe: “TUTTO QUELLO CHE SO, NON L’HO IMPARATO A SCUOLA!”

venerdì 6 gennaio 2012

FRESBEE'S THEORY



Jason da sempre aveva avuto la passione per il frisbee. Fin da bambino.
Una domenica di fine settembre di tanti anni fa, passeggiava con la sua mamma e il papà, in una spiaggia desolatamente deserta da qualche settimana.
Era ancora una bella giornata estiva tardiva.
Jason era davvero felice: finalmente aveva tutta la spiaggia per sé.
Poteva correre, far capriole, rotolarsi nella sabbia come non si sarebbe sognato di fare fino a qualche settimana prima, quando la spiaggia pullulava di turisti vocianti.
In lontananza, in fondo alla spiaggia, vide due ragazzi un po’ più grandi di lui che si lanciavano uno strano piatto di plastica colorato, o meglio, a lui sembrava così.
Jason scoprì in questo modo il frisbee.
Non poteva certo immaginare che quel piatto volante fosse nato in una tranquilla cittadina della provincia americana negli anni ’50 grazie ai gestori di una pasticceria in cerca di un espediente per facilitare il trasporto delle torte e divenuto famoso grazie agli studenti di Yale…
Si avvicinò di più a quei ragazzi che cortesemente lo fecero partecipe di quel gioco nuovo. Gli insegnarono come lanciarlo, come afferrarlo e come farlo arrivare più lontano possibile.
Ne rimase subito ipnotizzato. E subito si impadronì –avidamente- delle regole e dei “trucchi del mestiere”.
A sua volta, lui, come quei ragazzi della spiaggia, iniziò a “inoculare” quel benefico e salutare virus del frisbee tra i suoi compagni di scuola.
E quanta felicità sprizzava dai suoi occhi, quando spiegava ai suoi nuovi amici, quel nuovo gioco sconosciuto del quale lui era oramai maestro.
Il frisbee era diventato un appuntamento fisso nei pomeriggi nella spiaggia.
Tantissimi ragazzi si ritrovavano a divertirsi, lanciandosi reciprocamente quel “piatto colorato”.
Un giorno vide un ragazzino ricciolino, cicciotello, allampanato fermo in mezzo alla spiaggia.
Usò il “metodo Jason”: ovvero lanciare il frisbee verso quel ragazzo per coinvolgerlo.
Jason calibrò il tiro affinché il frisbee si librasse sulla testa del nuovo amico e si adagiasse con precisione millimetrica ai suoi piedi.
A questo punto, il “metodo” prevedeva che, dopo un momento di stupore, il ragazzo raccogliesse il “piatto colorato” e, incoraggiato da Jason, lo rilanciasse.
Ma accadde una cosa strana che ghiacciò il sangue dentro le vene di Jason.
Il ragazzino guardò quell’oggetto volante strano con evidente fastidio e sdegnoso si girò infastidito dalla parte opposta tenendo però tra le mani quel piatto colorato!
Jason rimase come una statua di ghiaccio, sebbene ci fosse caldo.
Beh, non poteva mica piacere a tutti, ma perché reagire così?
Forse non sa giocare, tentò di giustificarlo sta sé e sé.
Dopo questo momento di delusione, richiamato dagli amici, si girò e continuarono a giocare.
La domenica successiva vide una scena che mai si sarebbe aspettato di vedere: quel ragazzino che non aveva voluto giocare con il frisbee, stava lanciando con grande stile un frisbee ad un gruppo di amici.
Jason non stava nella pelle: aveva contagiato anche quel ragazzino apparentemente scorbutico e scontroso.
Dall’alto di una duna Jason gli lanciò il suo frisbee ma questo non si mosse. Anzi si soffermò a guardare Jason –fissandolo– poi continuò a lanciare il frisbee ad un gruppo di ragazzi intenti a fare altro.
Jason capì allora che:
1)“Non sempre coloro ai quali lanci un frisbee vogliono rilanciarlo a te.”.
2)“Spesso lo lanciano a chi non se lo aspetta!”
Passarono gli anni, e Jason divenne un bel giovane alto e simpatico. E molto intelligente.
Si laureò in psicologia e filosofia comportamentale all’università.
Ma anche in compagnia di Jung e Kant la sua passione restava sempre quel “piatto di plastica colorato”!
Possiamo sostenere che fu proprio grazie a quel momento di gran delusione che elaborò una teoria importante che porta il nome proprio di quel piatto colorato.
E applicò quella regola a tutti i rapporti interpersonali.
1)Non sempre donando amicizia si riceve amicizia, o donando affetto  si riceve affetto.
2)Spesso quelli a cui doniamo amicizia la deviano ad altri. E così per  l’affetto dando vita ad una sorta di riciclaggio di affetto, d’amicizia.

mercoledì 4 gennaio 2012

BILL BERNBACH, chi era costui??


Facciamo un gioco? Vi dico “Bill Bernbach”.
Che cosa vi viene in mente? Forse nulla. Come alla quasi totalità delle persone.
Eppure, togliendo lui si sgretolerebbe oltre metà dell’advertising pubblicitario del secolo appena trascorso.
La sua attività dal punto di vista della comunicazione pubblicitaria è paragonabile a quella di Galileo Galilei nell’astronomia, o Dante nella letteratura Italiana: dopo di lui nulla può esser stato come prima.
William Bernbach nacque nel 1911 in pieno Bronx, si laureò a pieni voti alla New York University in letteratura inglese, filosofia e gestione aziendale.
Trovò un posto nell’ufficio spedizioni delle Distillerie Schenley e, nel tempo libero, si dilettava a scrivere annunci per i prodotti dell’azienda, mandandoli all’agenzia che ne curava la pubblicità. Un giorno, sfogliando il New York Times, William vide che era stata pubblicata tale e quale una sua idea per il lancio dell’American Cream Whiskey, senza che l’agenzia gli avesse riconosciuto alcun merito…
Il boss della Schenley venne a saperlo e lo volle promuovere all’ufficio marketing.
Nel 1949, fondò la DDB - Doyle Dane Bernbach - con Ned Doyle. irlandese sanguigno, nel ruolo di outside man, il cacciatore di clienti; Maxwell Dane in quello di inside man, gestore delle finanze; e Bill come creative man, naturalmente.
I tre partirono senza debiti grazie a un anticipo dei grandi magazzini Orbach’s sulle future campagne pubblicitarie con le idee ben chiare: «Proviamo al mondo che il buon gusto, la buona arte, la buona scrittura possono creare una buona vendita!”
Il primo grande successo fu nel 1960 insegnò agli americani a “pensare in piccolo”: una pagina quasi vuota con il “Beetle” Volkswagen piccolo piccolo in alto a sinistra e la scritta “think small” . Una filosofia provocatoria per l’America del “think big”.
Stiamo parlando di un’America sempre più malata di gigantismo, e lui agli americani che sognavano di diventare tutti dei “numeri 1” propose di “pensare in piccolo”, perché “essere numero 2 è meglio”.
Stiamo parlando di alcune indimenticabili campagne pubblicitarie di Bill Bernbach, il pubblicitario più famoso e riconosciuto del XX secolo.
Bill riuscì a farsi da battistrada per la "rivoluzione creativa" contro un potente establishment pubblicitario di Madison Avenue da parte della chiusa elite WASP (White Anglo Saxon Protestant, ovvero il "vero Americano")...

Nel giro di pochi anni i clienti della DDB erano moltiplicati: American Airlines, Seagram, International Silver, Heinz, Sony, Uniroyal, Lever, Gillette.
Le regole sono quelle che l’artista spezza; nulla di memorabile è mai uscito da una formula”. È una delle tante frasi di Bernbach estrapolate dalle rare interviste rilasciate e da quello che amici, colleghi e familiari ricordano dei suoi discorsi.
Tutto merito della creatività di Bernbach e del suo carisma intransigente.
Alla DDB, lasciava i creativi alle sue dipendenze liberi di agire, dando a ciascuno la possibilità di crescere a proprio modo, anziché  renderli tutti uguali.
Per entrare alla DDB, aveva fissato due essenziali condizioni:
  1. avere talento;
  2. essere una persona perbene.
In mancanza di una delle due, la sua risposta era cortese ma negativa.
Da questa creatività dell’understatatement e della rettitudine nacquero campagne storiche.
Ecco alcuni esempi:
Per il panificio Levy’s, sotto la foto di un uomo di colore “non devi essere ebreo per amare Levy’s, vero pane di segale ebreo».
Per i magazzini Orbach’s, sotto la foto di un bambino corrucciato: «Siamo spiacenti di informarti che la tua roba per la scuola è pronta da Orbach’s». Per la tratta della linea aerea israeliana EL AL che accorciava i tempi della traversata atlantica ideò: «Dal 23 dicembre l'Oceano Atlantico sarà più piccolo del 20%».
Sotto una pagina senza foto: «Non c’è motivo di mostrarvi la nuova Volkswagen ’62. Sarà ancora la stessa!”
Non pubblicherà mai nulla circa le proprie teorie pubblicitarie, fedele all’idea che non ci si deve intrappolare in formule. Le pubblicità da lui create contenevano caratteristiche che oggi stentiamo a definire qualità, ma erano destinate a perdurare nella memoria del pubblico (infatti ancora adesso le stiamo citando ad esempio!) mentre invece scordiamo rapidamente gli effetti speciale più roboanti delle campagne pubblicitarie dei nostri giorni con “art-directors” alla ricerca di dare “pugni nello stomaco” per attirare il cliente.
Il necrologio, venticinque anni fa, sul New York Times riportava una sua frase: «I veri giganti sono sempre stati dei poeti, uomini che saltavano dai puri fatti al regno dell’immaginazione e delle idee».
Alla luce di tutto ciò allora io mi chiedo: dove sono finiti ai nostri giorni gli imprenditori intelligenti e lungimiranti come William Bernbach che per assumere personale nella propria azienda non richiedeva un “neolaureato, max 28anni, 4anni d’esperienza” bensì puntava semplicemente su una brava persona con talento, passione, interesse per ciò che doveva fare?
Dove son finiti oggi, nel XXI° secolo, i Bill Bernbach che danno più importanza a quello che potrai fare con il tuo talento e non a quello che hai già fatto?
D’altronde, si sa, i Galileo, i Manzoni, i Dante, gli Einstein non nascono ogni giorno, ma, accantonando l’orgoglio e la superbia, chi, sapendo di non essere né Galileo, né Manzoni o Dante, e tanto meno Einstein, potrebbe prendere l’esempio. No?

P.S.: Mi viene ora in mente una boutade: prendiamo il Titanic e l’Arca di Noè. Un’imbarcazione costruita da un dilettante con passione, l’altra da un team di ingegnieri al top.

La storia ha voluto chi favorire?