sabato 31 ottobre 2020

Halloween? O marketing spicciolo?


C’è stato un periodo in cui, per noi italiani, il 1° Novembre era la «festa di Ognissanti».
Poi, esteròfili come siamo, abbiamo importato ad occhi chiusi tradizioni straniere perché sono più… “cool”.
Provate a chiedere in questi giorni ad un bambino, che cosa si festeggia alla fine di ottobre/inizio di novembre! La risposta sarà corale: H-A-L-L-O-W-E-E-N!!
Fu così che, nel nostro paese, da qualche lustro, ha avuto una diffusione virale la festa di Halloween,  che – complice il marketing – si è trasformato in “carnevale d’autunno”.
Travestimenti, maschere, scheletri e scherzi sono gli elementi di questa ricorrenza che affascinano grandi e bambini.
Peccato che se ne stia cogliendo solo ed esclusivamente l’aspetto più goliardico e esteriore dell’evento, ignorando i valori simbolici e culturali originali dei pesi in cui tale tradizione è nata: Stati Uniti, Gran Bretagna e Irlanda.

Vorrei infatti specificare che non sono prevenuto contro Halloween a prescindere.
1)       Abbiamo già simili feste nelle tradizione italiana e regionale;
2)      Penso che non si sia perso il vero senso della festa di Halloween.
Mi spiego.

A partire dal termine Halloween che deriva da «Hallows’ Evening», letteralmente Sera di Tutti i Santi” e infatti la zucca intagliata, il simbolo di questa festa, chiamata “Jack O' Lantern” vede protagonista della leggenda, un vecchio fattore che, avendo peccato così tanto, neanche il diavolo lo volle e allora intagliò una zucca e iniziò a vagare per il mondo in cerca di un posto dove stare.

Nei paesi anglo-sassoni non è semplicemente un ornamento da esporre fuori dalla finestra, ma un simbolo legato ad una tradizione antichissima che serviva a tener lontani gli spiriti che –sempre secondo la leggenda– si diceva vagassero per la città nella notte del 31 ottobre.
Inoltre la tradizione di «Trick or treat?» (dolcetto o scherzetto?) fatta da bambini vestiti da mostri o streghe deriva semplicemente dal fatto che gli elfi e le fate presenti nella cultura celtica usavano fare scherzi agli uomini.
 
Ma lasciamo da parte ora le usanze celtiche.
Tutto ciò non si differenzia molto da ciò che accadeva in molti nostri paesi della Sardegna dove i bambini andavano in giro per le case a chiedere «Sos mortos mortos» o «Is animeddas» rimediando spesso fichi secchi e caramelle!.
Anche in Sardegna, infatti, la notte tra il 31 ottobre e il 1° Novembre, secondo la tradizione, il “portone” che trattiene le anime del purgatorio si apre, permettendo a queste di girovagare –momentaneamente– per le case che un tempo furono di loro proprietà o di visitare luoghi ai quali si sentono profondamente legate.
I bambini sardi, vagavano vestiti di stracci, quasi a voler simboleggiare le anime dei piccoli defunti, e bussavano di porta in porta, domandando, con cantilene differenti da località a località, una piccola offerta, un piccolo dono per le “sfortunate anime del purgatorio”, che in quella notte venivano ricordate più che in ogni altro giorno.

Ecco perché Halloween è una festa che non ci appartiene, per il solo fatto che abbiamo già le nostre tradizioni. 
Non ci appartiene perché strasuda di bieco e banale marketing (nella sua accezione più squallida) e perché rischia seriamente di annientare la nostra profonda tradizione della Commemorazione dei defunti e sostituirla con il nulla.
 
Per una corretta consapevolezza culturale, sarebbe bene valorizzare o addirittura riscoprire la nostra vecchia e cara festa dei morti, partendo soprattutto dalle scuole.
Perché le nostre tradizioni sono la nostra cultura e rappresentano la nostra identità.
Esterofili come siamo, il confronto tra Halloween e “sos mortos mortos” non può reggere!
Molto meglio una festa travestiti da streghette o diavoletto!!
 
Come se non bastasse, si è voluto aggiungere un tocco esoterico che, qualche mente bacata, ha voluto dare a questa festa, scatenando – come corollario! – l’ira funesta di coloro che, con altrettanta superficialità, lottano contro “Halloween festa satanica”.
Ma il punto è un altro.
Non dobbiamo permettere che le zucche e i fantasmi possano soppiantare i nostri dolcetti, le castagne, i fichi secchi e giocattoli. È giunta l’ora di riappropriarci della nostra identità e della nostra cultura, partendo proprio dai più piccoli.

Ai genitori e soprattutto ai nonni va questo importante compito di tramandare e tenere saldamente in vita queste tradizioni, raccontando le favole e i racconti che hanno sempre inchiodato alla sedia intere generazioni di bambini,  secondo le quali nella notte tra l’1 ed il 2 di novembre i nostri cari morti tornano a farci visita, portando dolci e regali.
È una questione di identità e di cultura: dobbiamo difenderla.

martedì 6 ottobre 2020

Shhhh!



Il silenzio è attesa di una comunicazione?

E parafrasando una citazione famosa di Gotthold Ephraim Lessing potremmo dire «l’attesa della comunicazione è anch’essa comunicazione»?

In un mondo in cui il frastuono è il compagno di ogni attimo della nostra giornata, il silenzio è davvero assenza di comunicazione?
Nelle nostre vite, regno della comunicazione più sfrenata, il silenzio è diventato più raro della tigre albina o della foca monaca.

Eppure il conte Giacomo Leopardi scrisse che «il silenzio è il linguaggio di tutte le forti passioni, dell'amore (anche nei momenti dolci) dell'ira, della maraviglia, del timore».

Il linguaggio non è soltanto rappresentato da quello che viene esplicitato verbalmente, ma la vera comunicazione nasce proprio dal “non detto”, da ciò che viene omesso in una comunicazione verbale.

Il silenzio non significa mancanza di parole, significa sforzarsi ad andare oltre, penetrare la persona e comprendere quello che ci sta dicendo.

Solo un linguaggio che prevede al suo interno un posto specifico per il silenzio è in grado di stabilire un contatto emotivo positivo con la realtà.

Comunicare nel silenzio è la più grande forma di dialogo che si possa raggiungere.

Il silenzio chiarisce più di ogni altra parola; ci aiuta a riflettere, a pensare, a conoscersi, a valutare, a goderci di più tutto quello che ci circonda. È un mezzo per arrivare alla nostra anima. È un mezzo per arrivare all’anima del nostro interlocutore.

Provate a chiedere ad un musicista l’importanza di una pausa in una sinfonia.

«Il silenzio è come il colore nella tavolozza del pittore, che viene usato per un riflesso di luce o per marcare un’ombra». (M. Brunello) 
Nella musica, il silenzio all’interno di una composizione è usato per creare un’emozione. 
Oppure, chiedete ad un abile oratore o un attore quanto sia utile una pausa (ad effetto!) per sottolineare una frase o un concetto!

E passiamo al ramo cromatico: il bianco è il silenzio del colore? Tutt’altro. Li riassume tutti.

Ergo, il silenzio è assenza di parole o una sorta di concentrato di parole?

Non vorrei fare della psicologia spicciola, ma anche nella nostra frenetica vita quotidiana, il silenzio spesso dice ciò che mille parole non potrebbero dire.

Nella comunicazione umana, c’è il silenzio che predispone all’ascolto ed alla conoscenza, quello che scandisce la punteggiatura di una relazione e quello che crea lo spazio in cui è possibile ascoltare in sé quanto una comunicazione ha lasciato. 
Il verso di una splendida canzone firmata da Paul Simon e Simon Garfunkel dice «[...] the vision that was planted in my brain still remains, within the sounds of silence» (la visione che era fissa nella mia mente, resta ancora racchiusa nel suono del silenzio!).

Il silenzio è anche un essenziale stratagemma per imparare ad ascoltare: senza il silenzio non possiamo ascoltare e saper ascoltare è tanto difficile quanto saper parlare.

Per migliorare la qualità delle nostre relazioni, per comprendere fino in fondo l’altro, ma soprattutto per comprendere principalmente noi stessi, dovremmo tacere di più e imparare a riflettere, a vedere quello che gli occhi non possono vedere e ad ascoltare quello che le nostre orecchie non possono ascoltare.

Di certo non conoscono il consiglio che il filosofo Pitagora dava ai suoi discepoli: stare in silenzio per 5 anni.

Nella meditazione orientale, il silenzio è d’obbligo.

Ed anche in quella cristiana, l’acme della preghiera avviene nel deserto, cioè in silenzio.

Nella tv, invece, vera e propria “maestra” della nostra vita, vige l’assoluto divieto del silenzio.

Un “buco audio” di pochi secondi o di immagine (quella che chiamano “nero”) sarebbe capace di creare uno scompenso cardiaco nel direttore di produzione della trasmissione.

Il silenzio invade anche l’ambito della comunicazione creativa.

Un mondo dove nello spazio di uno spot si vorrebbe infilare di tutto, si riempiono quei 30” di parole come una lavatrice zeppa di panni (e le massaie ci possono insegnare che quando è troppo carica, non lava bene!).

Ecco che si arriva al paradosso di velocizzare le parole come il tipico epilogo degli spot di farmaci da banco «è-un-presidio-medico-chirurgico-può-avere-effetti-indesiderati-anche-gravi-leggere-attentamente-il-foglietto-illustrativo—non-somministrare-al-di-sotto-dei-dodici anni-se-il-sintomo-persiste-consultare- il-medico» che nessuno ascolta.

Eppure qualche decennio fa proprio uno spot geniale che diede spazio al silenzio.
Si vedevano dei commensali seduti amabilmente attorno a una tavola imbandita, ma non si sentiva alcun suono, men che meno un dialogo neppure sussurrato, tanto da pensare che ci fosse un difetto audio.

Poi solo alla fine lo slogan (ideato da un genio della comunicazione come Lorenzo Marini), che come tutti i grandi claim sono entrati a far parte dei modi di dire: «Silenzio, parla Agnesi».