venerdì 22 novembre 2013

Un comunicato di allerta via fax di domenica? Geniale!!!


 Tutti pronti sui media a criticare il capo del Dipartimento della Protezione Civile Franco Gabrielli che -stanco vedere additato come unico colpevole il Dipartimento da lui gestito- si rivolge alle istituzioni locali per non aver saputo gestire «l’allerta» lanciato per tempo.
T
utti pronti sui social networks a liberare tutto il veleno che si ha in corpo, offendendo –travisandone le parole e distorcendone il senso– l’eurodeputato Lara Comi che in una trasmissione tv ha posto la questione che occorre anche avere «un’educazione alla prevenzione», riferendosi a coloro che hanno concesso l’abitabilità ad uno scantinato come quello dove è morta un’intera famiglia di quattro persone a Olbia.
T
utte le volte la stessa storia: dopo un disastro ambientale, terremoto, alluvione, slavina, smottamento, anche stavolta è subito cominciato il solito, insulso e becero baillame di scaricabarile istituzionale, per lanciare un po' di quel fango, che ha intasato le vie e fatto crollare le strade, addosso all'altro ufficio!!
Tutte le volte la stessa identica storia! 
Come ci spiega oggi Cristiano Gatti su “ilGiornale” (www.ilgiornale.it/news/interni/sardegna-tragedia-lallarme-dato-fax-969692.html)
Quod erat demonstrandum!
Poi si scopre che l'allarme per l’emergenza meteo è stato inviato via fax agli uffici comunali competenti di domenica, quando erano ovviamente chiusi.
Geniale vero?


Anche un bambino di 10 anni sarebbe arrivato a capire che mandare un fax di domenica in un ufficio per una comunicazione urgente sarebbe quanto mai inutile. Da dementi.Poi si scopre anche che a Olbia in quarant'anni ci son stati ventuno condoni edilizi, in media uno ogni due anni…

E una deduzione balugina nelle nostre menti: com’è possibile che i ponti costruiti dagli ingegneri dell’Impero Romano resistano dopo duemila anni a queste tragedie, e invece un ponte inaugurato due anni fa -costruito dai super esperti ingegneri di questa epoca- si sia sbriciolato come un castello di sabbia sotto l’impeto di un’onda di fine estate.
E nel frattempo la mia amata terra è stata stravolta, devastata e offesa dalla violenza di una terribile alluvione. Ma violentata soprattutto dalla sventataggine di molti burocrati.
E sedici –dico sedici!!– tra uomini, donne, anziani e bambini, son stati tragicamente immolati a queste sbadataggini burocratiche…

  E non solo!!
Anche dopo la tragedia le istituzioni anche stavolta si sono solo sapute dilettare, sprofondate nelle loro poltrone morbide, nell’elaborare toccanti comunicati-stampa in cui esprimono il loro dolore… ma l’unica vera solidarietà è quella dei singoli eroi e di quei tanti volontari intenti a spalare il fango per le strade di Olbia o Torpè o Posada…

domenica 17 novembre 2013

«ludopatia» o «pecuniopatia»?


Nel turbinìo dei neologismi, ultimamente ha fatto ingresso il termine “ludopatia” ovvero il gioco d'azzardo patologico.
Classificato come un disturbo del comportamento che, rientrerebbe nella categoria diagnostica dei “Disturbi del controllo degli impulsi” secondo la classificazione del DSM-IV (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, IV edizione).
Il giocatore patologico «mostra una crescente dipendenza nei confronti del gioco d'azzardo, aumentando la frequenza delle giocate, il tempo passato a giocare, la somma spesa nell'apparente tentativo di recuperare le perdite, investendo più delle proprie possibilità economiche (facendosi prestare i soldi) e trascurando gli impegni che la vita gli richiede».
Di storie di giocatori che … hanno perduto persino le mutande (oltre che la casa o la moglie) nei casinò ne son pieni i giornali fin dall’alba dei tempi…
Dove sta dunque la novità?
Io mi domando però l’effettiva correttezza terminologica di “ludopatia”, ovvero gioco patologico.  Son davvero attratti dal gioco o forse più dall’eventuale (molto remoto) guadagno che dal gioco si spera di ottenere?
Allora non sarebbe più corretto “crometopatia” o “plutopatia” o “pecuniopatia” ovvero attaccamento patologico verso i soldi o la ricchezza?
È il gioco in sé che li attrae o la speranza (mal riposta?) di ottenere un piccolo guadagno?
A questo proposito mi è balzata alla mente una deduzione che feci tanto tempo fa: la società moderna occidentale ha perso il “gusto di giocare” cogliendo nel gioco null’altro che … il piacere ludico.
L’Occidente nella lenta, banale, asfittica, grigia ed estenuante agonia in cui versa, dove cerca una salvezza?  
Nella tecnologia?
Nel sesso selvaggio?
Nella meditazione trascendentale? 
Nella politica?   
Nella rivoluzione o nelle riforme?   
Nei mondi virtuali?     
Friedrich George Junger (1898-1977) fratello minore del più famoso Ernst(1895-1998) indica in un libro edito nel 1953 la strada giusta nel gioco.
È una ri­cetta “ispirata” da Schiller e ripresa da tutti quei maestri del “pessimismo culturale”, come Schope­nhauer, Nietzsche, Rilke, Spengler e Benn, ai quali Junger si collega.
È passato più di mezzo secolo, ma quel libro è più valido che mai: le intui­zioni dell’autore sono state confermate, purtroppo, “ad abundantiam”: una civiltà che non sa più giocare, è condannata alla decadenza. 
Il gioco, infatti, è una parte in­tegrale della festa e la sua ciclicità attribuisce un senso cosmico e antropologico alle ricorrenze dell’anno. 
La festa è il giorno in cui non si lavora, ma si gioca, è il tempo libero che consente l’espressione gioiosa della personalità.   
Oramai –infatti–  abbiamo perduto il senso del “giorno di festa”. 
La dimostrazione è –ad esempio! – il fatto che anche la domenica, giorno di festa per eccellenza, troviamo i centri commerciali aperti…
La nostra è una civiltà che valuta il progresso del paese dal punto di vista dell’in­cremento della produttività lavorativa, in nome della quale, la domenica restano aperti i megastores, secondo l'imper­ativo del consumismo “com­pra e fuggi”, ha reso la questione difficilmente comprensi­bile. 
In parallelo col famosissimo scienziato Carlo Linneo che definì l’uomo “sa­piens”, in base alla sua gran­dezza in quanto “pensante” «quando si stacca dall’utile e diviene “speculazio­ne”»;
con Bergson che lo definì “fa­ber”, perché «fabbrica il mondo con la scienza e la tecnica», per Junger la grandezza del­l’uomo è soprattutto nel gio­co, infatti lo defisce “homo ludens”, come aveva detto poco prima di lui lo storico olandese Huizinga.

Il gioco, infatti, è una attività che ha in sè stessa, il suo fine, dunque una attività libera, a differenza del lavoro che ha il suo fine fuori di sè. 
Ecco perché non può essere definita il gioco d’azzardo patologico non è e non può essere “ludopatia”. Qui infatti il “gioco” non è un’attivita libera ma ha un fine, uno scopo: il guadagno.
E sbaglia chi contrappone la serietà (del lavoro) al gioco.
Giovanni Pascoli parla di «gioco serio al pari del la­voro»!
In realtà il vero gioco è molto più serio del lavoro.
I sociologi della nostra ci­viltà la definiscono anche “ludica”, cioè una civiltà dove il “ludus” è prevalente sul lavoro. E per certi aspetti tutto sembra, oggi, un gioco.
Gioco la politica, gioco la scuola, gioco gli audiovisivi, gioco le lotterie in numero sempre crescente.
Gioco l’amore, sia quello reale, che quello virtuale; gioco l’evasione chimica …in un’“altro mondo”.
Gioco la discoteca, gioco lo sport, il casinò e le corse dei cavalli.   Segno che l'uomo senza gioco non può vivere.

Ma poi talvolta proprio il gioco non lo è realmente.
Basterebbe pensare allo sport, che con lo spirito religioso di Olimpia oramai non ha più molto in comune e si è trasformato fu industria e spettacolo. 
Si pensi alla caccia: un gioco da sempre, dato che l’uomo, a differenza dell’ani­male, la esercitava senza motivi di utilità, spesso in collega­mento con la religione.
Ma oggi è sempre meno gioco: le armi della caccia, dal me­dioevo a oggi, si sono a tal punto perfezionate, da eliminare ogni rischio.
Quindi tutto diventa gioco… tranne il gioco.
La crisi della civiltà occi­dentale, nonostante la sua ricchezza, le sue perfezioni tecnologiche, appare in tutta evidenza nella sua perdita della capacità del vero senso del giocare, ossia di realizzare nel gioco, il trinomio libertà-legge-piacere.

Eraclito vede­va «nel tempo, il regno di un bambino che gioca con le tessere di una scacchiera» e il severo e misantropo Nietzsche affermava che «nel gioco, ciò che è inutile, può essere considerato come l’ideale dell’uomo sovraccarico di forza»…

mercoledì 11 settembre 2013

Ognuno ricambia ...come può!

C'era una volta un barbiere che decise di dedicare una settimana all'anno del suo lavoro per le opere di bontà al servizio della comunità.
Una mattina, arrivò un fioraio.
Al momento di pagare, il barbiere, con un sorriso smagliante, lo accompagnò all'uscita e spiegò che era tutto a posto. Non doveva pagare nulla, poichè in quella settimana, aveva deciso di lavorare per il benessere della comunità.
La mattina successiva, all'apertura, il barbiere trovò uno splendido mazzo di fiori variopinti. Un biglietto spiegava che il fioraio era grato e voleva ricambiare la generosità del barbiere.


Un'altra mattina, arrivò il verduraio.
Al momento di pagare, il barbiere, con un sorriso smagliante, lo accompagnò all'uscita e spiegò che era tutto a posto. Non doveva pagare nulla, poichè in quella settimana, aveva deciso di lavorare per il benessere della comunità.
La mattina successiva, all'apertura, il barbiere trovò uno cesto con frutta di stagione e verdura freschissima. Un biglietto spiegava che il verduraio era rimasto colpito dal gesto del barbiere e, grato, voleva ricambiare la sua generosità.
La mattina successiva, poi, arrivò nel salone del barbiere, il fornaio.
Anche con lui, dopo avergli lavato e tagliato i capelli, al momento di pagare, il barbiere, sfoderò il suo sorriso più smagliante, e, accompagnandolo all'uscita, gli spiegò che era tutto a posto: non doveva pagare nulla, poichè in quella settimana, aveva deciso di lavorare per il benessere della comunità.
La mattina successiva, il barbiere trovò accanto alla saracinesca del suo locale, un enorme cesto con focacce e pane e dolci genuini. In un biglietto il fornaio spiegava che si sentiva in debito e voleva ricambiare la generosità del barbiere.
Infine, una mattina, arrivò nel salone il Signor Sindaco del paese che chiese di lavarei e tagliargli i capelli e accorciare la barba e i baffi. La conclusione fu sempre la stessa. Il barbiere accompagnò il Sindaco alla porta e lo salutò spiegando la sua idea per il benessere della sua piccola comunità.

La mattina successiva, il barbiere era ancora distante dal suo negozio e già vedeva tanta gente sulla via. Davanti all'entrata del salone c'era una fila interminabile con la moglie del Sindaco, i suoi 6 figli, il genero della figlia maggiore, la nuora del suo secondogenito, la suocera e tre cugini pronti per tagliarsi i capelli.
[questa storia è tratta da una favola andalusa del XVI secolo]

mercoledì 5 giugno 2013

LUSSO E MADE IN ITALY: un tesoro prezioso gettato via!!

Un recente studio statistico ha evidenziato che il marchio “Made in Italy” è il più noto e apprezzato al mondo dopo quelli della Coca-Cola e della Visa!
In questa speciale classifica, risulta il ..."number one" al mondo in quanto identificatore di Paese.
E se per la tecnologia ci si affida a occhi chiusi al “made in Japan”, per lo stile, la classe, lo charme, un solo nome risuona all'unisono: MADE IN ITALY!
Sull’intero pianeta Terra, da Tokio a Los Angeles, da  Stoccolma a Malindi, dire “made in Italy” è una garanzia di qualità.
Dovremmo quindi stendere kilometri di tappeto rosso (pardonred carpet”!!) per l’unica voce (insieme al turismo!) della nostra economia che continua a far tenere alto il nome della nostra amatissima Patria nel mondo. La moda, le auto di lusso: sono sinonimo della fantasia italiana. Macchè!




Prendete "brand" italianissimi come Buitoni, Zoppas, Peroni, Algida, Gancia, Star, Valentino, Sanpellegrino, Riso Scotti, Loro Piana, Pomellato, Safilo, Fendi, Lamborghini.
TELECOM ora parla spagnolo, ALITALIA è francese, anche la PARMALAT è andata nelle mani francese, BUITONI invece ha preso la cittadinanza svizzera, le confetture SANTAROSA si son trasferite a fare il breakfast in Inghilterra, i colossi degli elettrodomestici REX, ZOPPAS, ZANUSSI sono in Svezia, l’alta moda VALENTINO punta di diamante del made in Italy è emigrata in Qatar, la birra PERONI è nei pub in Sud Africa, i gelati ALGIDA sono diventati icecreams in Olanda e Inghilterra. In Russia si brinda con lo spumante GANCIA, e la STAR … è diventata “Estrella” in Spagna. Le bibite SAN PELLEGRINO se le son bevute i francesi: ma già dagli anni '80 si sapeva che “C'èst plus facile”…
La GALBANI, LOCATELLI E INVERNIZZI  parlano fvanscese.  (e la mucca Carolina dirà: “pitipitumpà!”).
Il RISO SCOTTI è stato acquistato per fare la paella in Spagna. I francesi non hanno voluto rinunciare ai gioielli POMELLATO… In Olanda, poi con gli occhiali SAFILO hanno saputo vedere lontano.
Ultimamente si è diffusa in tutta l’Europa la vera e propria caccia all’untore ricco...

Francia, monsieur le President, François Gérard Georges Nicolas Hollande ha deciso di elevare la tassa al 75% sui redditi più alti.
Fu così che molti artisti come Catherine Deneuve e Gérard Depardieu  hanno deciso di espatriare (rispettivamente in Belgio e in Russia) dove son stati –ovviamente– accolti con tutti gli onori che meritano!
A brevissimo tempo li seguì Bernard Arnault, che annunciò il suo espatrio. Arnault non è certo un Carneade! Bensì è il manager di LVMH (ovvero “Louis Vuitton Moët Hennessy S.A.”) un impero che raggruppa il gotha dei maggiori brand del lusso nel mondo del calibro di





Hennessy, Krug, Mercier, Moët et Chandon, Dom Pérignon, Veuve Clicquot, Bulgari, De Beers Diamond Jewellers, Dior Watches, TAG Heuer, Hublot, Dior, Louis Vuitton, Fendi, Donna Karan, Givenchy, Kenzo, Loewe, Marc Jacobs, Bvlgari, Parfums Christian Dior, Guerlain, Parfums Givenchy, Kenzo Parfums, Acqua di Parma (e molti altri marchi prestigiosi!...)Anche in Italia non siamo da meno. Ma in maniera subdola. Noi sguinzagliamo la Guardia di Finanza.Non riusciamo a capire che se ancora il nostro amatissimo (non da tutti!!) Belpaese non affonda, se continua a galleggiare (alla faccia di tutti gli avvoltoi europei che scalpitano che cantarci il “De Profundis”), se ancora lo tricolore ha un suo valore nel mondo è solo per il turismo, lo stile e l’alta moda italiana.
ATTENZIONE!!!

Qui vi chiedo un piccolo stop per chiarire una cosa:
NON INTENDO AVALLARE, GIUSTIFICARE
O INCENTIVARE L’EVASIONE FISCALE CHE
 –RIBADISCO!–
DEVE ESSERE COMBATTUTA DURAMENTE.

Dovremmo coccolarci gli imprenditori di questo settore! Invece no!
Se sei ricco, sei anche un ladro bastardo, un evasore fiscale che merita anni di galera a pane e acqua.
(Salvo poi difendere chi va in giro in centro con un piccone in mano colpendo chicchessia: questi ultimi hanno sempre giustificazioni socio-economiche-demagogiche…).
Alla base l’invidia, quella più subdola e bieca, emerge alla grande.
Se sei famoso, se sei ricco, devi spiegarci come hai scalato la vetta del successo!!
Ecco infatti che -per fare un esempio recente!- Gaetano Ruta, pubblico ministero presso il tribunale di Milano, ha chiesto una condanna a due anni e sei mesi di carcere per gli stilisti Stefano Dolce e Domenico Gabbana, accusati di omessa dichiarazione dei redditi per non avere dichiarato tasse sulle royalties per circa 1 miliardo di euro!
L’avvocato dell’agenzia delle Entrate ha chiesto una provvisionale di 10 milioni di euro per danno all’immagine.

Qui sfioriamo il paradosso (o forse il ridicolo!!).
Danno all’immagine” di chi?
Dell’Agenzia delle Entrate?
Pertanto deduco che forse in qualche procura c’è chi ritiene che l’Italia sia famosa nel mondo per la sua “Agenzia delle Entrate”!
Chi riceve un danno maggiore alla propria immagine a livello mondiale, il “made in Italy” o l’Agenzia delle Entrate?
O forse la bella foto in prima pagina nei quotidiani per il procuratore “coraggioso”?
Ci sarebbe da ridere se non fosse tutto così folle.
Frode fiscale”.
-Bene.
-Bravi.
-Bis.
-Buona idea.
Sbattiamo in galera Dolce&Gabbana. E visto che ci siamo, diamo pure l’azienda  in mano a qualche ragioniere nominato dal Tribunale. E passi se “l’azienda” in questione non è il negozietto del verduraio sotto casa ma un brand che il mondo intero ci invidia!).

Sarebbe un po’ come se ad uno studente che ha la media del “9” un professore appioppasse un “7” in condotta per renderlo più… normale al resto della classe, accusandolo di aver copiato una volta in un compito!!
Un esempio: la multinazionale “Apple” a fronte dei suoi 74 miliardi di $ di utili e ha pagato 44 milioni di $ in tasse, ovvero, calcolatrice alla mano!, meno del 3%! (vogliamo ricordare che in Italia, le imposte per le aziende spesso superano il 60% degli utili?).
Il discorso non cambia per molti altri “brand”: Facebook, Microsoft, Twitter, Intel, Paypal e Tesla.
E perché? Semplice: gli americani sanno come difendere il “made in U.S.A.”!
E noi? Con il marchio che il mondo  ci invidia che facciamo? Li inseguiamo minacciando la galera.
Ma andiamo oltre.
Il mercato dell'auto di lusso.
Per le Highways, nella 5th Avenue, o davanti al “Dolby Theatre” di Hollywood, se non si vuole passare inosservati con quale macchina è bene arrivare? Ferrari? Lamborghini? Maserati? What else?In Europa, il settore dell’auto fa segnare il diciottesimo calo consecutivo (dati diffusi dall’Acea, riguardanti il mese di Marzo 2013).

Dietro questi dati ovviamente si riflettono il prezzo sempre crescente del carburante, le targhe alterne e i livelli di inquinamento eternamente al limite che non fanno altro che aumentare la depressione nel settore automobilistico nella nostra penisola.
Il presidente di Federauto, l’associazione che rappresenta i concessionari di autoveicoli, Filippo Pavan Bernacchi, ci ricorda però che “lo spauracchio del superbollo e la spettacolarizzazione nei controlli anti-evasione stanno distruggendo un settore, quello delle auto di lusso, che da sempre parla italiano”.
Le scelte intraprese dal Governo hanno letteralmente terrorizzato i potenziali clienti. E chi possiede queste vetture o cerca di sbarazzarsene, soprattutto all’estero, o le tiene in garage per paura di essere fermato e fatto oggetto di indagini plurime…
Rispetto al pari periodo del 2011, Ferrari ha avuto un calo del 51,5% e Maserati, -70%.
E ovviamente sono in agguato le lettere di licenziamento.
Ma licenziare un operaio della Maserati  fa meno rumore di uno della Fiat?
Altro che coccolare gli imprenditori che fanno brillare il nome della nostra nazione.
Loro sono ricchi e non meritano rispetto.
La proprietà è un furto e l’imprenditore è il nostro acerrimo nemico.
Pochi però ricordano che è l’unico datore di lavoro che fa crescere un Paese sempre più succube della sindrome di “tafazzismo”!


domenica 5 maggio 2013

CINQUE MAGGIO




Il cinque maggio è un’ode scritta da Alessandro Manzoni nel 1821, in occasione della morte di Napoleone Bonaparte in esilio sull'isola di Sant'Elena.

Manzoni la scrisse di getto in tre giorni dopo aver appreso le circostanze della morte di Napoleone e vuol mettere in risalto oltre alle battaglie e le imprese dell’ex imperatore la fragilità umana e la misericordia di Dio.

Manzoni restò colpito nel venire a sapere chedurante l’esilio Napoleone ricevette i sacramenti cristiani. Manzoni immagina come doveva soffrire Napoleone rinchiuso in quell'isoletta dispersa e immagina anche come la fede e Dio abbiano avuto compassione nei confronti di Napoleone.






Ei fu.
Siccome immobile,
dato il mortal sospiro,
stette la spoglia immemore
orba di tanto spiro,
così percossa, attonita
la terra al nunzio sta,
muta pensando all'ultima
ora dell’uom fatale;
né sa quando una simile
orma di piè mortale
la sua cruenta polvere
a calpestar verrà.
Lui folgorante in solio
vide il mio genio e tacque;
quando, con vece assidua,
cadde, risorse e giacque,
di mille voci al sònito
mista la sua non ha:
vergin di servo encomio
e di codardo oltraggio,
sorge or commosso al sùbito
sparir di tanto raggio;
e scioglie all'urna un cantico
che forse non morrà.
Dall'Alpi alle Piramidi,
dal Manzanarre al Reno,
di quel securo il fulmine
tenea dietro al baleno;
scoppiò da Scilla al Tanai,
dall'uno all'altro mar.
Fu vera gloria? Ai posteri
l'ardua sentenza: nui
chiniam la fronte al Massimo
Fattor, che volle in lui
del creator suo spirito
più vasta orma stampar.
La procellosa e trepida
gioia d'un gran disegno,
l'ansia d'un cor che indocile
serve, pensando al regno;
e il giunge, e tiene un premio
ch'era follia sperar;
tutto ei provò: la gloria
maggior dopo il periglio,
la fuga e la vittoria,
la reggia e il tristo esiglio;
due volte nella polvere,
due volte sull'altar.
Ei si nomò: due secoli,
l'un contro l'altro armato,
sommessi a lui si volsero,
come aspettando il fato;
ei fè silenzio, ed arbitro
s'assise in mezzo a lor.
E sparve, e i dì nell'ozio
chiuse in sì breve sponda,
segno d'immensa invidia
e di pietà profonda,
d'inestinguibil odio
e d'indomato amor.
Come sul capo al naufrago
l'onda s'avvolve e pesa,
l'onda su cui del misero,
alta pur dianzi e tesa,
scorrea la vista a scernere
prode remote invan;
tal su quell'alma il cumulo
delle memorie scese.
Oh quante volte ai posteri
narrar se stesso imprese,
e sull'eterne pagine
cadde la stanca man!
Oh quante volte, al tacito
morir d'un giorno inerte,
chinati i rai fulminei,
le braccia al sen conserte,
stette, e dei dì che furono
l'assalse il sovvenir!
E ripensò le mobili
tende, e i percossi valli,
e il lampo dè manipoli,
e l'onda dei cavalli,
e il concitato imperio
e il celere ubbidir.
Ahi! Forse a tanto strazio
cadde lo spirto anelo,
e disperò; ma valida
venne una man dal cielo,
e in più spirabil aere
pietosa il trasportò;
e l'avviò, pei floridi
sentier della speranza,
ai campi eterni, al premio
che i desideri avanza,
dov'è silenzio e tenebre
la gloria che passò.
Bella Immortal! Benefica
Fede ai trionfi avvezza!
Scrivi ancor questo, allegrati;
ché più superba altezza
al disonor del Gòlgota
giammai non si chinò.
Tu dalle stanche ceneri
sperdi ogni ria parola:
il Dio che atterra e suscita,
che affanna e che consola,
sulla deserta coltrice
accanto a lui posò.

Alessandro Manzoni

venerdì 15 marzo 2013

LE IDI DI MARZO

2054 anni orsono, a Roma, fu commesso uno fra i più orrendi crimini della storia.
Il 15 marzo 44 a.C., chiamate secondo il calendario Romano, “le Idi di marzo”, Caio Giulio Cesare venne barbaramente ucciso durante una seduta del Senato di Roma.
Fu assassinato dagli stessi nemici a cui aveva concesso la sua clemenza, da quegli amici a cui aveva concesso sempre onori e gloria e anche da coloro che aveva nominato eredi nel suo testamento.
Il popolo di Roma lo pianse sinceramente.
Presero parte alla congiura più di sessanta persone. A capo ne erano gli ex-pompeiani Caio Cassio, praetor peregrinus, e Marco Bruto, praetor urbanus. Alla congiura aderirono anche alcuni cesariani, tra cui Decimo Bruto, console designato per l'anno seguente, e Trebonio, uno dei migliori generali di Cesare destinato al consolato nel 42.Uma vera imboscata a tradimento!
Cassio era il promotore e il vero capo della congiura. Marco Bruto aderì poco prima dell'assassinio, dando una parvenza di nobiltà all'azione. Infatti Marco Bruto era considerato un filosofo stoico, al di sopra degli interessi venali personali o di classe, benché facesse l'usuraio.
I congiurati furono a lungo incerti se trucidarlo in Campo Marzio mentre faceva l'appello delle tribù in occasione delle votazioni, oppure se aggredirlo sulla via Sacra o all'ingresso del teatro.
Ma quando il Senato venne convocato nella Curia di Pompeo per le Idi di marzo (15 marzo), preferirono quel tempo e quel luogo. I congiurati portarono in Senato delle casse contenenti armi, facendo finta che fossero documenti. Inoltre appostarono un gran numero di gladiatori nel teatro di Pompeo, a poca distanza dalla Curia.
Il giorno delle Idi, Cesare non si sentiva bene. Calpurnia, sua moglie, la notte ebbe dei tristi presentimenti e lo scongiurò di non andare in Senato. Gli indovini avevano fatto dei sacrifici e l'esito era stato sfavorevole.
Cesare pensò anche di mandare Marco Antonio ad annullare la seduta del Senato.
I congiurati inviarono quindi Decimo Bruto per esortare Cesare a presentarsi in Senato e informarlo che i senatori erano arrivati già da tempo e lo stavano aspettando. Annullare la seduta a quel punto sarebbe stata un'offesa per i magistrati.
Cesare si fidò dell’amico fedelissimo Decimo Bruto, addirittura nominato suo secondo erede nel testamento.
Verso l’ora quinta, circa le undici del mattino, Cesare si mise in cammino, effettuò le pratiche religiose previste ed entrò nella Curia. Il console Marco Antonio rimase fuori trattenuto da Trebonio.
Cesare era senza la guardia del corpo perchè proprio poco tempo prima aveva deciso di abolirle.
I suoi accompagnatori erano solo senatori e cavalieri.
Appena si fu seduto, i congiurati lo attorniarono come per rendergli onore.
Cimbro Tillio cominciò a perorare una sua causa. Cesare fece il gesto di allontanarlo per rinviare la discussione e Tillio lo afferrò per la toga.
Quello era il segnale convenuto per l'assassinio.
Publio Servilio Casca colpì Cesare alla gola. Cesare reagì, afferrò il braccio di Casca e lo trapassò con lo stilo. Tentò di alzarsi in piedi, ma venne colpito un'altra volta.
Cesare vide i pugnali avvicinarsi da ogni parte. Allora si coprì la testa con la toga e con la mano sinistra la distese fino ai piedi. Voleva che la morte lo cogliesse dignitosamente coperto.
Ricevette 33 ferite. Ma solo al primo colpo si lamentò.
Poi ci fu solo silenzio.
Cadde a terra esanime.
I senatori fuggirono in preda al panico.
Rimasero solo i congiurati.
Tre schiavi deposero il cadavere su di una lettiga e lo riportarono a casa.
Cesare aveva 56 anni.
La vigilia delle Idi, discutendo su quale fosse la morte migliore, aveva detto a Marco Lepido "Ad ogni altra ne preferisco una rapida ed improvvisa".
E così era stato.

domenica 3 febbraio 2013

L’Occidente non sa più giocare


A più di sessant’anni dalla morte, l’acuta e arguta opera del fratello del famoso Ernst Junger consente di leggere a fondo le ragioni di una crisi epocale.





In questa lenta grigia estenuante agonia dell’Occidente dove cercare una salvezza?
Nella politica?
Nella tecnologia?
Nel sesso selvaggio o nella meditazione trascendentale?
Nella rivoluzione o nelle riforme?
Nell’ingegneria genetica o nei mondi virtuali?
La strada giusta, secondo Friedrich George Junger (1898-1977) è un'altra: il gioco.
È una ri­cetta “dettata” da Schiller nel 1795 e ripresa da tutti quei maestri del “pessimismo culturale”, come Schope­nhauer, Nietzsche, Rilke, Spengler e Benn, ai quali Junger si collega.
Friedrich George Junger è il fratello minore del più famoso Ernst (1895-1998) la ideò in un libro del 1953, che circa dieci anni fa è stato portato a conoscenza dei lettori italiani: Saggio sul gioco. Una chiave per com­prenderlo" (Ideazione edi­trice).


È passato più di mezzo secolo dopo, ma quel libro è ancor più valido che mai, dato che nell’intervallo di tempo, le intui­zioni dell’autore sono state confermate, purtroppo, ad abundantiam: una civiltà che non sa più giocare, è condan­nata alla decadenza.


Il gioco, infatti, è una parte in­tegrale della festa e la sua ciclicità attribuisce un senso cosmico e antropologico alle ricorrenze dell’anno.
La festa è il giorno in cui non si lavora, ma si gioca, è il tempo libero che consente l’espressione gioiosa della personalità.
Oramai invece abbiamo perduto il senso del “giorno di festa”.
La nostra civiltà del tutto-mercato che valuta il progresso del paese dall'in­cremento della produttività lavorativa e per la quale, la domenica restano aperti i mega-stores, secondo l'imper­ativo del consumismo “com­pra e fuggi”, ha reso la questione difficilmente comprensi­bile.
Il grande scienziato Carlo Linneo definì l’uomo “sa­piens”, in base alla sua gran­dezza in quanto “pensante”, soprat­tutto quando si stacca dall’utile e diviene “speculazio­ne”;  Bergson lo definì “fa­ber”, perché fabbrica il mondo con la scienza e la tecnica.
Per  Junger la grandezza del­l’uomo e soprattutto nel gio­co: “homo ludens”, come aveva detto poco prima di lui lo storico olandese Huizinga.
Il gioco, infatti, è una attività che ha in se stessa, il suo fine, dunque una attività libera, a differenza del lavoro che ha il suo fine fuori di sè.


Non è certo la serietà che distingue il lavoro dal gioco.
Anzi Pascoli parla di «gioco serio al pari del la­voro» e per un “socialista” era già molto!
In realtà il vero gioco è molto più serio del lavoro.
Quando gioca, l'uomo è come Dio che creò il mondo «per gioco».
I sociologi della nostra ci­viltà la definiscono anche “ludica”, cioè una civiltà dove il “ludus” è prevalente sul lavoro.
E davvero tutto sembra, oggi, un gioco.
Gioco la politica, gioco la scuola, gioco gli audiovisivi, gioco le lotterie in numero sempre crescente. Gioco l’amore, sia quello reale, che quello virtuale; gioco l’evasione chimica …in un’“altro mondo”. Gioco la discoteca, gioco lo sport, il casinò e le corse dei cavalli.
Segno che l'uomo senza gioco non può vivere.
Ma non sempre ciò che viene chiamato gioco lo è vera­mente.
Basterebbe pensare allo sport, che con lo spirito religioso di Olimpia non ha più molto in comune e si è trasformato fu industria e spettacolo.
Merito non piccolo di que­sto elegante e raffinato saggio è di saper cogliere, in ogni manifesta­zione della vita, la presenza del gioco, e, insieme, la sua degenerazione, che mai aveva rag­giunto i livelli del nostro tempo.
Si pensi alla caccia: un gioco da sempre, dato che l’uomo, a differenza dell’ani­male, la esercitava senza motivi di utilità, spesso in collega­mento con la religione.
Ma oggi è sempre meno gioco: le armi della caccia, dal me­dioevo a oggi, si sono a tal punto perfezionate, da eliminare ogni rischio.
Al contrario di quanto ancora av­viene in uno dei giochi, anzi dei riti, più carichi di senso, la corrida (alla quale il libro dedica delle pagine stupefacen­ti).


Dove il gioco raggiunge il massimo di gioia e soddisfa­zione è nell’amore: «Che gli innamorati siano sufficienti a se stessi, che non desiderino altro che se stessi, che la pura inclinazione, che non si con­fonde con un fine o un utile, non conosca neppure fine ed utile, nè sopporta di esservi vincolata, tutto ciò l'avvicina al gioco».
Un gioco oggi lar­gamente perduto.
Dato che non è gioco, l’eros tranquil­lante e distaccato, cui spesso lo si riduce negli spot (“far bene l'amore fa bene all’amore”) , quasi alla stregua di una pillola o di una “dose”...


Il sentimento vi è sottomesso al calcolo della ragione stru­mentale: «È ridicolo dire che l'amore è sport, esercizio fisi­co, ginnastica. Che non sono più giochi puri, cioè privi di qualsiasi relazione con uno scopo o un utile al di là del gioco».
La crisi della civiltà occi­dentale, nonostante la sua ricchezza, le sue perfezioni tecnologiche, appare in tutta evidenza nell’incapacità di giocare, ossia di realizzare nel gioco il trinomio salvifico di libertà, legge e piacere.
Senza negare l’utilità del lavoro, Junger ripropone il gioco vero, quello di che tutte le civiltà tradizionali sono state capaci. Quello per cui Eraclito vede­va «nel tempo, il regno di un bambino che gioca con le tessere di una scacchiera»; quello per cui Nietzsche po­teva affermare che «nel gioco, ciò che è inutile, può essere considerato come l’ideale dell’uomo sovraccarico di forza»