sabato 31 ottobre 2020

Halloween? O marketing spicciolo?


C’è stato un periodo in cui, per noi italiani, il 1° Novembre era la «festa di Ognissanti».
Poi, esteròfili come siamo, abbiamo importato ad occhi chiusi tradizioni straniere perché sono più… “cool”.
Provate a chiedere in questi giorni ad un bambino, che cosa si festeggia alla fine di ottobre/inizio di novembre! La risposta sarà corale: H-A-L-L-O-W-E-E-N!!
Fu così che, nel nostro paese, da qualche lustro, ha avuto una diffusione virale la festa di Halloween,  che – complice il marketing – si è trasformato in “carnevale d’autunno”.
Travestimenti, maschere, scheletri e scherzi sono gli elementi di questa ricorrenza che affascinano grandi e bambini.
Peccato che se ne stia cogliendo solo ed esclusivamente l’aspetto più goliardico e esteriore dell’evento, ignorando i valori simbolici e culturali originali dei pesi in cui tale tradizione è nata: Stati Uniti, Gran Bretagna e Irlanda.

Vorrei infatti specificare che non sono prevenuto contro Halloween a prescindere.
1)       Abbiamo già simili feste nelle tradizione italiana e regionale;
2)      Penso che non si sia perso il vero senso della festa di Halloween.
Mi spiego.

A partire dal termine Halloween che deriva da «Hallows’ Evening», letteralmente Sera di Tutti i Santi” e infatti la zucca intagliata, il simbolo di questa festa, chiamata “Jack O' Lantern” vede protagonista della leggenda, un vecchio fattore che, avendo peccato così tanto, neanche il diavolo lo volle e allora intagliò una zucca e iniziò a vagare per il mondo in cerca di un posto dove stare.

Nei paesi anglo-sassoni non è semplicemente un ornamento da esporre fuori dalla finestra, ma un simbolo legato ad una tradizione antichissima che serviva a tener lontani gli spiriti che –sempre secondo la leggenda– si diceva vagassero per la città nella notte del 31 ottobre.
Inoltre la tradizione di «Trick or treat?» (dolcetto o scherzetto?) fatta da bambini vestiti da mostri o streghe deriva semplicemente dal fatto che gli elfi e le fate presenti nella cultura celtica usavano fare scherzi agli uomini.
 
Ma lasciamo da parte ora le usanze celtiche.
Tutto ciò non si differenzia molto da ciò che accadeva in molti nostri paesi della Sardegna dove i bambini andavano in giro per le case a chiedere «Sos mortos mortos» o «Is animeddas» rimediando spesso fichi secchi e caramelle!.
Anche in Sardegna, infatti, la notte tra il 31 ottobre e il 1° Novembre, secondo la tradizione, il “portone” che trattiene le anime del purgatorio si apre, permettendo a queste di girovagare –momentaneamente– per le case che un tempo furono di loro proprietà o di visitare luoghi ai quali si sentono profondamente legate.
I bambini sardi, vagavano vestiti di stracci, quasi a voler simboleggiare le anime dei piccoli defunti, e bussavano di porta in porta, domandando, con cantilene differenti da località a località, una piccola offerta, un piccolo dono per le “sfortunate anime del purgatorio”, che in quella notte venivano ricordate più che in ogni altro giorno.

Ecco perché Halloween è una festa che non ci appartiene, per il solo fatto che abbiamo già le nostre tradizioni. 
Non ci appartiene perché strasuda di bieco e banale marketing (nella sua accezione più squallida) e perché rischia seriamente di annientare la nostra profonda tradizione della Commemorazione dei defunti e sostituirla con il nulla.
 
Per una corretta consapevolezza culturale, sarebbe bene valorizzare o addirittura riscoprire la nostra vecchia e cara festa dei morti, partendo soprattutto dalle scuole.
Perché le nostre tradizioni sono la nostra cultura e rappresentano la nostra identità.
Esterofili come siamo, il confronto tra Halloween e “sos mortos mortos” non può reggere!
Molto meglio una festa travestiti da streghette o diavoletto!!
 
Come se non bastasse, si è voluto aggiungere un tocco esoterico che, qualche mente bacata, ha voluto dare a questa festa, scatenando – come corollario! – l’ira funesta di coloro che, con altrettanta superficialità, lottano contro “Halloween festa satanica”.
Ma il punto è un altro.
Non dobbiamo permettere che le zucche e i fantasmi possano soppiantare i nostri dolcetti, le castagne, i fichi secchi e giocattoli. È giunta l’ora di riappropriarci della nostra identità e della nostra cultura, partendo proprio dai più piccoli.

Ai genitori e soprattutto ai nonni va questo importante compito di tramandare e tenere saldamente in vita queste tradizioni, raccontando le favole e i racconti che hanno sempre inchiodato alla sedia intere generazioni di bambini,  secondo le quali nella notte tra l’1 ed il 2 di novembre i nostri cari morti tornano a farci visita, portando dolci e regali.
È una questione di identità e di cultura: dobbiamo difenderla.

martedì 6 ottobre 2020

Shhhh!



Il silenzio è attesa di una comunicazione?

E parafrasando una citazione famosa di Gotthold Ephraim Lessing potremmo dire «l’attesa della comunicazione è anch’essa comunicazione»?

In un mondo in cui il frastuono è il compagno di ogni attimo della nostra giornata, il silenzio è davvero assenza di comunicazione?
Nelle nostre vite, regno della comunicazione più sfrenata, il silenzio è diventato più raro della tigre albina o della foca monaca.

Eppure il conte Giacomo Leopardi scrisse che «il silenzio è il linguaggio di tutte le forti passioni, dell'amore (anche nei momenti dolci) dell'ira, della maraviglia, del timore».

Il linguaggio non è soltanto rappresentato da quello che viene esplicitato verbalmente, ma la vera comunicazione nasce proprio dal “non detto”, da ciò che viene omesso in una comunicazione verbale.

Il silenzio non significa mancanza di parole, significa sforzarsi ad andare oltre, penetrare la persona e comprendere quello che ci sta dicendo.

Solo un linguaggio che prevede al suo interno un posto specifico per il silenzio è in grado di stabilire un contatto emotivo positivo con la realtà.

Comunicare nel silenzio è la più grande forma di dialogo che si possa raggiungere.

Il silenzio chiarisce più di ogni altra parola; ci aiuta a riflettere, a pensare, a conoscersi, a valutare, a goderci di più tutto quello che ci circonda. È un mezzo per arrivare alla nostra anima. È un mezzo per arrivare all’anima del nostro interlocutore.

Provate a chiedere ad un musicista l’importanza di una pausa in una sinfonia.

«Il silenzio è come il colore nella tavolozza del pittore, che viene usato per un riflesso di luce o per marcare un’ombra». (M. Brunello) 
Nella musica, il silenzio all’interno di una composizione è usato per creare un’emozione. 
Oppure, chiedete ad un abile oratore o un attore quanto sia utile una pausa (ad effetto!) per sottolineare una frase o un concetto!

E passiamo al ramo cromatico: il bianco è il silenzio del colore? Tutt’altro. Li riassume tutti.

Ergo, il silenzio è assenza di parole o una sorta di concentrato di parole?

Non vorrei fare della psicologia spicciola, ma anche nella nostra frenetica vita quotidiana, il silenzio spesso dice ciò che mille parole non potrebbero dire.

Nella comunicazione umana, c’è il silenzio che predispone all’ascolto ed alla conoscenza, quello che scandisce la punteggiatura di una relazione e quello che crea lo spazio in cui è possibile ascoltare in sé quanto una comunicazione ha lasciato. 
Il verso di una splendida canzone firmata da Paul Simon e Simon Garfunkel dice «[...] the vision that was planted in my brain still remains, within the sounds of silence» (la visione che era fissa nella mia mente, resta ancora racchiusa nel suono del silenzio!).

Il silenzio è anche un essenziale stratagemma per imparare ad ascoltare: senza il silenzio non possiamo ascoltare e saper ascoltare è tanto difficile quanto saper parlare.

Per migliorare la qualità delle nostre relazioni, per comprendere fino in fondo l’altro, ma soprattutto per comprendere principalmente noi stessi, dovremmo tacere di più e imparare a riflettere, a vedere quello che gli occhi non possono vedere e ad ascoltare quello che le nostre orecchie non possono ascoltare.

Di certo non conoscono il consiglio che il filosofo Pitagora dava ai suoi discepoli: stare in silenzio per 5 anni.

Nella meditazione orientale, il silenzio è d’obbligo.

Ed anche in quella cristiana, l’acme della preghiera avviene nel deserto, cioè in silenzio.

Nella tv, invece, vera e propria “maestra” della nostra vita, vige l’assoluto divieto del silenzio.

Un “buco audio” di pochi secondi o di immagine (quella che chiamano “nero”) sarebbe capace di creare uno scompenso cardiaco nel direttore di produzione della trasmissione.

Il silenzio invade anche l’ambito della comunicazione creativa.

Un mondo dove nello spazio di uno spot si vorrebbe infilare di tutto, si riempiono quei 30” di parole come una lavatrice zeppa di panni (e le massaie ci possono insegnare che quando è troppo carica, non lava bene!).

Ecco che si arriva al paradosso di velocizzare le parole come il tipico epilogo degli spot di farmaci da banco «è-un-presidio-medico-chirurgico-può-avere-effetti-indesiderati-anche-gravi-leggere-attentamente-il-foglietto-illustrativo—non-somministrare-al-di-sotto-dei-dodici anni-se-il-sintomo-persiste-consultare- il-medico» che nessuno ascolta.

Eppure qualche decennio fa proprio uno spot geniale che diede spazio al silenzio.
Si vedevano dei commensali seduti amabilmente attorno a una tavola imbandita, ma non si sentiva alcun suono, men che meno un dialogo neppure sussurrato, tanto da pensare che ci fosse un difetto audio.

Poi solo alla fine lo slogan (ideato da un genio della comunicazione come Lorenzo Marini), che come tutti i grandi claim sono entrati a far parte dei modi di dire: «Silenzio, parla Agnesi».

lunedì 31 agosto 2020

Quando DIANA tornò a Londra da regina


Esattamente 23 anni fa, nella notte tra il 30 e il 31 agosto del 1997, lasciava tragicamente questa terra a 36 anni, Lady Diana Frances Spencer, nota in tutto il mondo come “Lady Diana”.
Da sottolineare che titolo “lady” lo ereditò dalla sua famiglia di origine, non dal matrimonio reale…
È stata innegabilmente una donna che ha lasciato un segno indelebile nella seconda metà del ‘900.
Dietro l’immagine patinata che i media hanno voluto offrirci, c’è solo l’immagine di una donna fragile, delicata, infelice, anticonformista (per quel che poteva permettersi). Una grande donna.
Una donna che conquistò il freddo popolo del Regno Unito, che sentì subito “a pelle” che per la prima volta nella “Royal Family” qualcuno mostrava sensibilità ed umanità.
«La principessa del popolo», la chiamarono e la chiamano ancora gli inglesi adottando la fortunata definizione di Tony Blair.
La notte tra il 30 ed il 31 agosto, era con Dodi Al-Fayed, quella tragica notte i due partirono in auto dall’Hotel Ritz in Place Vendôme e per sfuggire ai giornalisti e ai fotografi che li aspettavano in cerca di scoop.
Poco dopo mezzanotte nel tunnel dell’Alma a Parigi l’autista perse il controllo della Mercedes che sbandò e si schiantò contro un pilastro.  

Dodi Al-Fayed
e l’autista morirono sul colpo. 
La guardia d
el corpo, seduta sul sedile anteriore, rimase gravemente ferita. 
Lady Diana, ancora viva, venne soccorsa e poi trasportata in ambulanza all’ospedale Pitié-Salpêtrière, dove arrivò poco dopo le 2 di notte.
Aveva gravi lesioni interne e due ore più tardi venne dichiarata morta.
Per le sue esequie nelle strade di Londra si riversarono circa 3 milioni di persone. E durante la cerimonia Elton John, suo amico personale, le dedicò una versione di «Candle in the Wind».
Come disse il fratello di Diana era «una donna dalla nobiltà innata che andava oltre le classi sociali», e che negli ultimi anni aveva «dimostrato di non aver bisogno di un titolo reale per continuare a generare il suo particolare tipo di magia».
Una donna davvero speciale che con la sua immagine, dopo il divorzio, aiutò i bambini poveri dell'Africa e fu accanto a personalità come Nelson Mandela, il XIV Dalai Lama Tenzin Gyatso, e santa Madre Teresa di Calcutta con la quale strinse una fortissima amicizia.
Proprio quest’ultima, a chi storceva il naso per la sua amicizia con quella donna così distante da lei, contesa dalle copertine delle riviste di gossip, la religiosa replicava: «Non sto incontrando una principessa, ma una giovane ansiosa di fare opere di bene e rinforzare la propria fede».
Per uno strano scherzo del destino poi entrambe moriranno a 5 giorni di distanza.
La sua grandezza era proprio quella di mettere tutti a proprio agio.

Ho un ricordo personale: 
In occasione del suo genetliaco, il 1° Luglio, mi piaceva farLe pervenire i miei auguri e Lei, puntualmente, mi faceva rispondere con la sua carta intestata (non quella ufficiale, ma quella personale!)... 

















Ecco perché la sua bellezza e la sua classe rimarranno sempre a imperitura memoria. 
Ecco perché quel 31 agosto 1997 Diana tornò a Londra da Regina.



venerdì 10 luglio 2020

FREE SPEECH contro l'intolleranza del pensiero unico


Spesso si parla su quale sia il metodo più efficace contro gli intolleranti. Bella domanda. Occorre però chiederci prima cosa sia l’intolleranza.
In questi casi poi salta sempre fuori automaticamente – come un pupazzo a molla - il “paradosso sulla tolleranza” di Karl Popper, secondo cui un regime tollerante dovrebbe mettere al bando gli stessi intolleranti. Ovvero per salvaguardare la tolleranza serve intolleranza!
Una tolleranza quindi che vieti le opinioni critiche o avverse.
Tolleranza non significa affatto essere accondiscendenti o rispettare qualsiasi opinione o dottrina. Questa è una tolleranza inautentica, acquiescente e passiva, incapace di contrastare con durezza e senza riguardi di sorta le opinioni avverse.
John Locke in una lettera sulla tolleranza religiosa scrisse che i cattolici erano esclusi dalla tolleranza proprio perché accusati di essere intolleranti.
E questo è il nocciolo di tutta la questione.
Il contrario di intolleranza è capacità di confronto.
Avete notato che i movimenti “anti” finiscono sempre per usare gli stessi metodi usati dall’ideologia che combattono.
Ciò accade ad esempio tra razzisti e antirazzisti, fascisti e antifascisti…
Mi appello quindi a John Stuart Mill che nel suo «On Liberty» scrisse che «dovrebbe esservi la più piena libertà di professare e discutere, in quanto questione di convinzioni etiche, qualsiasi dottrina, per quanto immorale venga considerata». Questo è l’unico modo di salvaguardare un pluralismo autentico contrapposto ad un pluralismo falso che ammetta solo le opinioni della maggioranza (quindi ciò che accadeva nella Russia di Stalin o nell’Italia fascista o in qualsiasi altra dittatura). Ed è ciò che adesso noi viviamo sotto una dittatura più subdola, una “dittatura dolce” come la definì Aldous Huxley in una lettera a George Orwell, la dittatura del politically correct che vorrebbe abolire il “free speech” imponendoci la standardizzazione dei nostri pensieri.
La tolleranza deve essere esercitata proprio rispetto a quelle pratiche e a quelle opinioni che sono al contempo disapprovate e osteggiate in modo assolutamente deciso. È questo, io credo, il ‘segreto’ della tolleranza.
A questo proposito, in questi giorni,  alcuni studiosi e intellettuali di area liberale, hanno firmato un manifesto pubblicato dalla rivista «HARPER’S» per spiegare che per sanare alcuni torti alcune democrazie hanno intensificato una nuova serie di atteggiamenti che indeboliscono le nostre norme sul dibattito aperto a favore del conformismo ideologico.
Parliamo di personaggi del rango di Anne Applebaum, Salman Rushdie, Margaret Atwood, Ian Buruma, Yascha Mounk, David Brooks, Steven Pinker, Kamel Daoud, Francis Fukuyama, J.K. Rowling, Mark Lilla, molti dei quali potrebbero parlarci a lungo dell’intolleranza.
Essi sostengono che il libero scambio di informazioni e idee «linfa vitale di una società liberale», sta diventando sempre più limitato. 
È un'intolleranza verso le visioni opposte, una tendenza a dissolvere questioni politiche complesse in un’accecante certezza morale.
L’incapacità cioè di accettare qualsiasi opinioni difforme dal pensiero unico.
E dalla intolleranza alla censura il passo è breve.

Ed ora non posso non citare – come conclusione – la saggezza di Oscar Wilde che «Ogni volta che la gente è d'accordo con me provo la sensazione di avere torto».


giovedì 9 luglio 2020

STUDIARE È UN VERBO DIFETTIVO: NON HA L’IMPERATIVO!


Ultimamente tanto si è parlato di metodi didattici e di istruzione (o distruzione).
È un argomento che mi ha sempre interessato, ovviamente con gli occhi di uno studente (sebbene per un breve periodo sono stato anche al di qua della cattedra e … nel tempo libero spesso aiuto alcuni studenti a studiare). 
Sigmund Freud indicava tre mestieri difficili: l’insegnante, il politico ed il terapeuta.
In questo articolo oggi  vorrei parlarvi della prima categoria.
Alzi la mano chi, nel corso dell’iter scolastico, non si è imbattuto in qualche docente con un gran talento: quello di far passare la voglia di studiare e mandare all’aria tutti i libri?
Lascio parlare i numeri.
·         Il 25% degli studenti universitari interrompono gli studi prima della laurea;
·         Il 14,5% si laureano nei tempi previsti: 
·         Il 43% sono fuori corso (di cui: 32% sfora di 2anni; per il 40% il ritardo è di 5anni; il 28% supera i 5anni!)
Sono tutti scansafatiche?
Certo, una fetta considerevole lo sarà.
C’è sempre qualcuno che “prova” ad iscriversi all’università!
È anche vera la diffidenza verso le statistiche che Trilussa ha spiegato benissimo con il sonetto del pollo-e-mezzo! Ma inequivocabilmente ci indicano un trend!

Il prof. GianCarlo Nivoli, ex docente di clinica psichiatrica all’università di Sassari ed autore del libro “Sopravvivere all’università” (2002, Centro Scientifico Editore) affermava che “quarant’anni di attività accademica” lo portano "a puntare il dito verso i docenti per gli scricchiolii del mondo dell’istruzione".
Non si ferma lì!
Dall’alto della sua competenza professionale afferma che tali colpe spesso “sono dovute alle loro psicopatologie”.
Il prof. Nivoli ha elencato cinque tipologie di docenti pericolosi, tra cui il narcisista ed il sadico.
Il narcisista trova ogni occasione per alludere e richiamare ripetutamente le sue ricerche, nonché le sue amicizie altolocate del settore. È sempre stato il più bravo.
Poi c’è il sadico: degno successore di Margherita Goundam, la maîtresse parigina inventrice della “sedia di contenzione” per clienti sadici. Quest'ultimo inchioda lo studente all’esame, lo umilia per gli errori (meglio se in pubblico!), gode delle sue incertezze, additandolo come “fellone” se lo studente propone di ripresentarsi all’appello successivo.
Purtroppo questa è solo la punta di un iceberg sulla quale ogni anno tanti “Titanic” vanno disintegrarsi!
Se poi si aggiunge la crisi di panico che si scatena quando ci si “accomoda” sulla sedia per essere interrogato, la frittata è bell’e fatta!
Io a malapena ricordavo il mio nome, cognome e il luogo dove mi trovavo!
Io venivo, quindi, valutato non per quello che sapevo, ma per quello che riuscivo “a far credere” di sapere. E questo per molti studenti è un dramma.
Un criterio valutativo, ahimè, affidato a ciò che “sembra”, non a ciò che “è”!
È come giudicare una persona, stando affacciati alla finestra, in conformità a come è vestita o all’auto che guida.
Ovvero la solita vecchia storia (ma quanto mai in vigore) dell’ESSERE e dell’APPARIRE.
Qualche volta in sede d’esame mi è stato detto: “mettiti nei nostri panni!”.
Perfetto!! c'è però un punto: mentre io, professore, non lo sono mai stato, loro, invece, sono stati necessariamente studenti. Pertanto, io non posso mettermi nei loro panni, mentre loro possono (e devono, o dovrebbero) mettersi nei panni studenteschi!
Ritengo di poter affermare che, per superare brillantemente un esame occorre soprattutto “saper vendere bene la propria merce”!
Io, invece, a causa della mia emozione, ero costretto a ritornare a casa con una preparazione eccellente e senza voto nel libretto.
Ma le storture cominciano ben prima dell’università.
Daniel Pennac nel suo “Come un romanzo” afferma che il verbo “leggere” non gradisce l’imperativo. Come d’altronde il verbo “amare”, “sognare”, “studiare”… 

Questo concetto però non è stato colto da chi s’interessa di Istruzione (di ogni ordine e grado!). L’amore per la lettura e per lo studio segue le stesse regole dell’amore tra due persone.
Lo stesso dicasi per il verbo “sognare”. Non possiamo dire «mi raccomando: stanotte sogna! E domani devi raccontarmeli!!»
Proviamo ad immaginare questa scena:
Esterno.
Pomeriggio.
Su una panchina di un parco si trovano seduti un ragazzo ed una ragazza. “AMAMI! dice lui!
È forse credibile?
Possiamo forse imporre un sentimento?
Certo che no!
Bisogna invece creare le “condizioni per amarsi”.
Il ragazzo metterà in atto una serie di azioni e comportamenti affinché la ragazza decida spontaneamente di amarlo!

Lo studio o la lettura richiedono lo stesso “meccanismo”: stimolare lo studente a leggere quel romanzo, quella poesia. Nelle scuole invece i più grandi capolavori della letteratura vengono sottoposti a torture atroci con l’obbligo della lettura.
Capolavori come l’Eneide, l’Odissea, la Divina Commedia, i Promessi Sposi vengono infilati nel tritacarne dei commenti e delle versioni in prosa di torme di studenti, trasformati in filastrocche degne di una recita di Natale:
“eifusiccomeimmobile/
datoilmortalsospiro/
stettelaspogliaimmemore/
orbaditantospiro”.
Proviamo poi a chiedere a questi studenti cosa  il Manzoni abbia trasmesso loro con quelle parole!
Non si insegna ad assaporare il senso della bellezza di una poesia.
“Interrogato sulla poesia”.
Che contraddizione!
Come dire: obbligato a dimostrare amore!
Ecco come uccidere la poesia!
A scuola ci si va per prendere un voto. Tutto questo è agghiacciante.

Se entro in una libreria, girando fra gli scaffali verrò attratto dalle copertine o dal titolo di qualche volume (ecco che ancora si ripresenta una similitudine con l’amore tra due persone: se vedo una bella ragazza, prima di sapere se è intelligente, simpatica, oca, svampita, rimarrò attratto dall’aspetto fisico) quindi lo sfoglierò e verificherò se anche nei contenuti sommari è avvincente come la copertina.
Avete presente la copertina o il titolo di un libro di testo alle superiori o all'università? Provate a ricordare qualche titolo. “Lezioni di…”, “Manuale di….”
E le copertine? Non si va oltre il grigio, beige, e bianco con al centro il titolo…
Evviva l'originalità...
La copertina deve essere spartana, austera, triste: lo studente deve studiare, non divertirsi!
Quei libri sono ideati col solo ed unico scopo di essere studiati (…non letti!) dallo studente.
Quel libro non serve allo studente per approfondire la propria conoscenza ma solo per consentirgli/le di superare l’esame.

Molti libri sono stati scritti non tanto perché leggendoli venga trasmesso il sapere dell’autore, bensì per far sapere quanto grande fosse il sapere dell’autore”.
Questa potrebbe essere la posizione di uno studente frustrato, invece è l’opinione di un certo Wolfgang Johannes Goethe.
La quasi totalità dei libri parte dal presupposto: “IO SO E SCRIVOTU NON SAI E STUDIA!”

I libri letti liberamente danno libertà (vi siete mai soffermati sul termine latino di “libro” e “libero”? entrambi sono “liber”. Sarà solo una coincidenza?)
Un libro regala sempre la patente di fantasia al lettore che immagina la scena, integra la descrizione di quel paesaggio, dei lineamenti di quel personaggio, con particolari differenti per ogni lettore.
Forse le copertine grigie, i titoli asettici servono come agenti di polizia per sequestrare quella patente di fantasia.
A scuola la fantasia non può e non deve esistere!

Il tasto dolente però è l’università!
Anni fa Stenio Solinas ne“il Giornale” fece un’interessante inchiesta sulle università da cui scaturirono elementi molto interessanti.
Oramai le università sono solo “stazioni ferroviarie e aeroportuali per i professori, dove tra un treno (o un aereo) e l’altro svolgono lezioni, e nelle quali gli studenti cercano di intercettarli “al volo”.
Possiamo forse parlare di “trasmissione di sapere”?? Certo che no.
I professori sono rimasti all’epoca di “Lascia o Raddoppia?” dove io studente devo essere valutato per ciò che riesco a dimostrare di sapere in una manciata di minuti e non per ciò che effettivamente sa!
 Per Stefano Zecchi, ordinario di Estetica all’università Statale di Milano sono solo “un esamificio”, un “liceo di 2° categoria”.
Come si può valutare la preparazione di uno studente in poche domande?
Come si può valutare in 20/30 minuti la preparazione di uno studente durata almeno 4/5 mesi?
L’università è un pianeta a sé, con proprie leggi fisiche e temporali:
l’anno dura sei mesi; il mese tre settimane; la settimana quattro giorni; l’ora dura 45minuti…
 Un po' come voler visitare una grande città in un'oretta.

Ripetere è molto facile (lo fanno anche i bimbi alla scuola materna con le poesie), ben diverso è “sapere”… e gli studenti (volponescamente!) si sono adeguati a questo metodo di studio!
Il target è solo superare l’esame, non conoscere la materia.
Il combustibile non è la voglia di sapere, ma la speranza di trovare il modo di “far credere di sapere”…

È il cane che si morde la coda.
Negli insegnanti manca il sacro fuoco della trasmissione del sapere, e come giusto corollario, gli studenti manca il sacro fuoco della voglia di sapere.
Se gli insegnanti fossero animati dalla passione per la materia, parlerebbero con trasporto e con fervore scatenando interesse negli studenti. Come faceva Platone nel "Simposio", ad esempio.
Le lezioni sarebbero coinvolgenti e i 45minuti volerebbero…
Invece al di qua della cattedra c’è il trasporto tipico dell’impiegato statale che aspetta (come il rag. Ugo Fantozzi) l’ora di uscita; al di là della cattedra non potrà che avere come risposta una serie di sbadigli!
Non posso quindi che concludere con un’altra frase di Wolfgang Johannes Goethe“TUTTO QUELLO CHE SO, NON L’HO IMPARATO A SCUOLA!”

P.S. Devo però ammettere che c'è una piccola minoranza che salva la categoria dei docenti. Persone che mettono l'anima e la passione nelle lezioni, che sentono quel "sacro fuoco", che sentono la loro professione come una missione per trasmettere e appassionare gli studenti.
Sono una piccola minoranza sulla quale io confido.

mercoledì 1 luglio 2020

A PRINCESS WAS BORN (TODAY)


Diana Spencer nacque il 1° luglio 1961 da Edward Spencer, VIII conte Spencer, Visconte di Althorp e dalla sua prima moglie Frances Ruth Burke-Roche, Viscontessa di Althorp, figlia di Ruth Roche e di Edmond Burke Roche, quarto Barone Fermoy.
Nacque a Parkhouse, proprio vicino la residenza reale di Sandringham.
La madre, Lady Frances, lasciò la famiglia quando Diana ha solo sei anni e andò a vivere con un facoltoso proprietario terriero, Peter Shand Kydd.
La famiglia degli Spencer, è addirittura più antica e blasonata di quella dei Windsor...


Il padre Lord John di Edward (il padre di Diana) diventò l'ottavo Conte di Althorp.
Il figlio Charles diventò visconte e le tre sorelle Diana, Sarah e Jane sono elevate al rango di Lady.


Fin da piccola Diana soffrì della mancanza della figura materna: la madre era spesso assente e trascurava la famiglia.
A dodici anni Diana viene iscritta alle scuole secondarie presso l'istituto di West Heoth nel Kent; dopo poco lascia l'amatissima residenza di Parkhouse e si trasferisce nel castello di Althorp nella contea del Northamptonshire.
Grazie al suo comportamento informale, Lady D. (come viene soprannominata dai tabloid con un tocco fiabesco), entra subito nel cuore dei sudditi e del mondo intero.
Nel 1977, giovanissima, ad una battuta di caccia conosce Carlo, che allora frequentava la sorella Sarah. Nel mese di luglio 1979 le due sorelle Spencer vengono invitate in Scozia nella residenza reale estiva e a febbraio del 1980, per la prima volta, Diana trascorre un fine settimana a Sandringham senza la compagnia delle sorelle.
Si susseguono una serie di incontri fino a che il 24 febbraio 1981 Buckingham Palace annuncia ufficialmente il loro fidanzamento.
Il matrimonio avviene nella St. Paul's Cathedral a Londra, mercoledì 29 luglio 1981, trasmesso in mondovisione. 
Diana veste un abito con un velo lungo ben sette metri.
Alla cerimonia nella cattedrale partecipano 2500 invitati.
Il viaggio di nozze di Carlo e Diana è una crociera a bordo del panfilo reale Britannia, il più antico della Marina inglese. 
La prima tappa fu a Porto Cervo in Sardegna.
Dal matrimonio con il principe Charles, nacquero due figli William e Harry.


Nel dicembre 1992 viene annunciata ufficialmente la separazione e saltarono fuori tante cose che possono spiegare il viso perennemente triste di Lady D.
 Lady Diana si trasferì a Kensington Palace, mentre il principe Carlo continuò a vivere ad Highgrove.
Nel novembre 1995 Diana rilascia un'intervista televisiva. Parla della sua infelicità e del rapporto con Carlo.
Carlo e Diana divorziano il 28 agosto 1996.
Numerose sono le sue attività di beneficenza e solidarietà in cui oltre a prestare la propria immagine, si impegna attivamente con l'esempio.
Con la sua immagine aiutò soprattutto i bambini poveri dell'Africa e fu accanto a personalità come Nelson Mandela, il XIV Dalai Lama Tenzin Gyatso, e la beata Madre Teresa di Calcutta con la quale strinse una fortissima amicizia (e che a distanza di 2 settimane la raggiunse nel regno celeste!)
Dopo la separazione Lady D continua ad apparire accanto alla famiglia reale nelle celebrazioni ufficiali.
Il 1997 è l'anno in cui Lady Diana sostiene attivamente la campagna contro le mine anti-uomo.
Il 31 agosto 1997 avviene il terribile incidente nel tunnel dell'Alma a Parigi: alla fine di un'estate trascorsa insieme, perdono la vita Lady Diana e Dodi al-Fayed
Il corpo della principessa venne sepolto in un minuscolo isolotto al centro di un laghetto ovale che abbellisce la sua casa ad Althorp Park, a circa 130 chilometri a nord-ovest di Londra.
Ma la sua bellezza e la sua classe rimarrà sempre a imperitura memoria. 

mercoledì 15 gennaio 2020

"La più piccola minoranza al mondo è l'individuo" (Ayn Rand)


Una lettera sul blog “Italians” (clikka per leggere la lettera) del Corriere ha fatto emergere la mia idiosincrasia verso l’omologazione e la massificazione imperante ai nostri giorni.
Il lettore Alessandro Monteverdi fa notare che «siamo tempestati dal "diritto all'eguaglianza" che travalicando il senso prettamente giuridico-costituzionale (e un po' utopistico) dell'art. 2 della nostra Costituzione («tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge, ....») porta però alla massificazione e alla omologazione».
Impossibile negarlo: viviamo in una dittatura.
Ma la forma apparentemente democratica del nostro governo non c’entra.
La dittatura in cui siamo immersi è molto più subdola: è l’egemonia imperante del “politically correct” i cui effetti ben più devastanti di una dittatura intesa come forma di governo.
È un “cavallo di Troia” contenente pericolosissimi virus capaci di annientare la propria libertà di pensiero, ne più o ne meno come un “virus troyan” capace di azzerare la memoria del nostro computer.
E la dittatura  del conformismo che ci ruba la capacità di essere se stessi.
Diogene Laerzio, interrogato su quale fosse la cosa più bella tra gli uomini, disse: «La libertà di pensiero».
Pensateci bene quanta saggezza racchiusa in tre paroline (più l’articolo): già di per se la “libertà” è in assoluto l’elemento essenziale per una persona, ma la libertà di pensiero è ciò che lo distingue da chiunque altro.
Meglio di un’impronta digitale e del codice genetico del DNA.
La libertà di pensiero è ciò che ci rende speciali e unici.
Ma oggigiorno, dire ciò che la società vuole sentirsi dire, ti permette di avere una sorta di “passpartout” che apre tutte le porte che ti permette di vivere bene.
Ma attenzione – ubi commoda, ibi est incommoda – questo è un patto pericoloso e subdolo perché pretende che tu abiuri completamente le tue idee. Tutto questo è facilissimo per chi, le idee, non le ha. Eccoci quindi ad un bivio, un dilemma amletico: essere sé stessi o far parte della società?
Tertium non datur!
È un bivio, non una rotonda.
La «political correctness» è un’ideologia diabolica e devastante, intrisa fino al midollo dell’ipocrisia più becera e ruffiana, che ci impone di seguire un percorso obbligato dettato dal mainstream. 
Ecco un’altra parola-chiave, molto più efficace del famoso “Apriti sesamo!”.
Nella fiaba di «Alì Babà e i quaranta ladroni» serve per aprire l'ingresso di una caverna dove quaranta banditi hanno nascosto un tesoro.

La lettera invoca di dare la giusta importanza al diritto alla diversificazione e per supportare la sua opinione fa un esempio: il lettore ha due fratelli gemelli, apparentemente due copie perfette. Stessa altezza, stessi occhi verde smeraldo, stessi capelli ricci, stesse efelidi, stesso rotacismo (...e stesse orecchie a ventola!) eppure hanno gusti differenti: hanno scelto due indirizzi di studio molto diversi (ingegneria e filologia); uno è pragmatico e realista, l'altro è un folle sognatore; uno salutista a tavola, l'altro è decisamente dionisiaco.
Ecco l'importanza della diversità del singolo!
Poi cita una grande scrittrice di origine russa naturalizzata americana, Ayn Rand O'Connor che – da amante degli aforismi – io adoro.
Ayn Rand scrisse una perla di saggezza che a mio parere andrebbe inserita nella costituzione di ogni paese civile: «la più piccola minoranza al mondo è l'individuo. Chiunque neghi i diritti dell'individuo non può sostenere di essere un difensore delle minoranze».
Tutti parlano di diritti delle minoranze, ma nessuno si sofferma a riflettere che la più piccola e indifesa minoranza è proprio l'individuo!
L’individuo è ormai privi di alcuna difesa sopraffatto dal mainstream. 
È come una sorta di setaccio per la farina che fa passare chi si adatta e si uniforma alle convenzioni.
Il mainstream e il politically correct sono due setacci, sono ceppi di una catena strettissima che ci costringe ad uniformarti, adeguarti, comportarti come un cyborg che è stato resettato dai dati contenuti, formattato e pre-programmato.
Un'etichetta, un codice a barre che ci viene attribuito e marchiato a fuoco sulla nostra pelle...
Allo stesso modo, oggigiorno, preferiamo resettare la nostra libertà di esprimere – senza filtri – il nostro pensiero, pur di essere accettati dal consesso sociale, sottovalutando che questa è la nostra vera schiavitù, la nostra schiavitù più devastante perché ci sta privando di pensare liberamente.
Ecco dunque la vera dittatura che ci opprime: quella del politicamente corretto.
Oscar Wilde nella sua opera più intimistica, «De Profundis», ci lasciò detto – molto amaramente – che “la maggior parte delle persone sono solo la copia esatta di altre e i loro pensieri sono solo i pensieri di qualcun altro”.
Che posso dire, concludendo questo mio sfogo scatenato da quella lettera?
Ri-impossessiamoci dei nostri pensieri anche quando non collimano con quelli della maggioranza. 
Sulla Terra ci sono sette miliardi di esseri umani ma non esiste alcuno perfettamente uguale ad un altro.
Ritroviamo l’orgoglio di essere noi stessi.
Viva la diversità, abbasso l'omologazione.
#BeYourself #BeFree