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domenica 17 novembre 2013

«ludopatia» o «pecuniopatia»?


Nel turbinìo dei neologismi, ultimamente ha fatto ingresso il termine “ludopatia” ovvero il gioco d'azzardo patologico.
Classificato come un disturbo del comportamento che, rientrerebbe nella categoria diagnostica dei “Disturbi del controllo degli impulsi” secondo la classificazione del DSM-IV (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, IV edizione).
Il giocatore patologico «mostra una crescente dipendenza nei confronti del gioco d'azzardo, aumentando la frequenza delle giocate, il tempo passato a giocare, la somma spesa nell'apparente tentativo di recuperare le perdite, investendo più delle proprie possibilità economiche (facendosi prestare i soldi) e trascurando gli impegni che la vita gli richiede».
Di storie di giocatori che … hanno perduto persino le mutande (oltre che la casa o la moglie) nei casinò ne son pieni i giornali fin dall’alba dei tempi…
Dove sta dunque la novità?
Io mi domando però l’effettiva correttezza terminologica di “ludopatia”, ovvero gioco patologico.  Son davvero attratti dal gioco o forse più dall’eventuale (molto remoto) guadagno che dal gioco si spera di ottenere?
Allora non sarebbe più corretto “crometopatia” o “plutopatia” o “pecuniopatia” ovvero attaccamento patologico verso i soldi o la ricchezza?
È il gioco in sé che li attrae o la speranza (mal riposta?) di ottenere un piccolo guadagno?
A questo proposito mi è balzata alla mente una deduzione che feci tanto tempo fa: la società moderna occidentale ha perso il “gusto di giocare” cogliendo nel gioco null’altro che … il piacere ludico.
L’Occidente nella lenta, banale, asfittica, grigia ed estenuante agonia in cui versa, dove cerca una salvezza?  
Nella tecnologia?
Nel sesso selvaggio?
Nella meditazione trascendentale? 
Nella politica?   
Nella rivoluzione o nelle riforme?   
Nei mondi virtuali?     
Friedrich George Junger (1898-1977) fratello minore del più famoso Ernst(1895-1998) indica in un libro edito nel 1953 la strada giusta nel gioco.
È una ri­cetta “ispirata” da Schiller e ripresa da tutti quei maestri del “pessimismo culturale”, come Schope­nhauer, Nietzsche, Rilke, Spengler e Benn, ai quali Junger si collega.
È passato più di mezzo secolo, ma quel libro è più valido che mai: le intui­zioni dell’autore sono state confermate, purtroppo, “ad abundantiam”: una civiltà che non sa più giocare, è condannata alla decadenza. 
Il gioco, infatti, è una parte in­tegrale della festa e la sua ciclicità attribuisce un senso cosmico e antropologico alle ricorrenze dell’anno. 
La festa è il giorno in cui non si lavora, ma si gioca, è il tempo libero che consente l’espressione gioiosa della personalità.   
Oramai –infatti–  abbiamo perduto il senso del “giorno di festa”. 
La dimostrazione è –ad esempio! – il fatto che anche la domenica, giorno di festa per eccellenza, troviamo i centri commerciali aperti…
La nostra è una civiltà che valuta il progresso del paese dal punto di vista dell’in­cremento della produttività lavorativa, in nome della quale, la domenica restano aperti i megastores, secondo l'imper­ativo del consumismo “com­pra e fuggi”, ha reso la questione difficilmente comprensi­bile. 
In parallelo col famosissimo scienziato Carlo Linneo che definì l’uomo “sa­piens”, in base alla sua gran­dezza in quanto “pensante” «quando si stacca dall’utile e diviene “speculazio­ne”»;
con Bergson che lo definì “fa­ber”, perché «fabbrica il mondo con la scienza e la tecnica», per Junger la grandezza del­l’uomo è soprattutto nel gio­co, infatti lo defisce “homo ludens”, come aveva detto poco prima di lui lo storico olandese Huizinga.

Il gioco, infatti, è una attività che ha in sè stessa, il suo fine, dunque una attività libera, a differenza del lavoro che ha il suo fine fuori di sè. 
Ecco perché non può essere definita il gioco d’azzardo patologico non è e non può essere “ludopatia”. Qui infatti il “gioco” non è un’attivita libera ma ha un fine, uno scopo: il guadagno.
E sbaglia chi contrappone la serietà (del lavoro) al gioco.
Giovanni Pascoli parla di «gioco serio al pari del la­voro»!
In realtà il vero gioco è molto più serio del lavoro.
I sociologi della nostra ci­viltà la definiscono anche “ludica”, cioè una civiltà dove il “ludus” è prevalente sul lavoro. E per certi aspetti tutto sembra, oggi, un gioco.
Gioco la politica, gioco la scuola, gioco gli audiovisivi, gioco le lotterie in numero sempre crescente.
Gioco l’amore, sia quello reale, che quello virtuale; gioco l’evasione chimica …in un’“altro mondo”.
Gioco la discoteca, gioco lo sport, il casinò e le corse dei cavalli.   Segno che l'uomo senza gioco non può vivere.

Ma poi talvolta proprio il gioco non lo è realmente.
Basterebbe pensare allo sport, che con lo spirito religioso di Olimpia oramai non ha più molto in comune e si è trasformato fu industria e spettacolo. 
Si pensi alla caccia: un gioco da sempre, dato che l’uomo, a differenza dell’ani­male, la esercitava senza motivi di utilità, spesso in collega­mento con la religione.
Ma oggi è sempre meno gioco: le armi della caccia, dal me­dioevo a oggi, si sono a tal punto perfezionate, da eliminare ogni rischio.
Quindi tutto diventa gioco… tranne il gioco.
La crisi della civiltà occi­dentale, nonostante la sua ricchezza, le sue perfezioni tecnologiche, appare in tutta evidenza nella sua perdita della capacità del vero senso del giocare, ossia di realizzare nel gioco, il trinomio libertà-legge-piacere.

Eraclito vede­va «nel tempo, il regno di un bambino che gioca con le tessere di una scacchiera» e il severo e misantropo Nietzsche affermava che «nel gioco, ciò che è inutile, può essere considerato come l’ideale dell’uomo sovraccarico di forza»…

domenica 3 febbraio 2013

L’Occidente non sa più giocare


A più di sessant’anni dalla morte, l’acuta e arguta opera del fratello del famoso Ernst Junger consente di leggere a fondo le ragioni di una crisi epocale.





In questa lenta grigia estenuante agonia dell’Occidente dove cercare una salvezza?
Nella politica?
Nella tecnologia?
Nel sesso selvaggio o nella meditazione trascendentale?
Nella rivoluzione o nelle riforme?
Nell’ingegneria genetica o nei mondi virtuali?
La strada giusta, secondo Friedrich George Junger (1898-1977) è un'altra: il gioco.
È una ri­cetta “dettata” da Schiller nel 1795 e ripresa da tutti quei maestri del “pessimismo culturale”, come Schope­nhauer, Nietzsche, Rilke, Spengler e Benn, ai quali Junger si collega.
Friedrich George Junger è il fratello minore del più famoso Ernst (1895-1998) la ideò in un libro del 1953, che circa dieci anni fa è stato portato a conoscenza dei lettori italiani: Saggio sul gioco. Una chiave per com­prenderlo" (Ideazione edi­trice).


È passato più di mezzo secolo dopo, ma quel libro è ancor più valido che mai, dato che nell’intervallo di tempo, le intui­zioni dell’autore sono state confermate, purtroppo, ad abundantiam: una civiltà che non sa più giocare, è condan­nata alla decadenza.


Il gioco, infatti, è una parte in­tegrale della festa e la sua ciclicità attribuisce un senso cosmico e antropologico alle ricorrenze dell’anno.
La festa è il giorno in cui non si lavora, ma si gioca, è il tempo libero che consente l’espressione gioiosa della personalità.
Oramai invece abbiamo perduto il senso del “giorno di festa”.
La nostra civiltà del tutto-mercato che valuta il progresso del paese dall'in­cremento della produttività lavorativa e per la quale, la domenica restano aperti i mega-stores, secondo l'imper­ativo del consumismo “com­pra e fuggi”, ha reso la questione difficilmente comprensi­bile.
Il grande scienziato Carlo Linneo definì l’uomo “sa­piens”, in base alla sua gran­dezza in quanto “pensante”, soprat­tutto quando si stacca dall’utile e diviene “speculazio­ne”;  Bergson lo definì “fa­ber”, perché fabbrica il mondo con la scienza e la tecnica.
Per  Junger la grandezza del­l’uomo e soprattutto nel gio­co: “homo ludens”, come aveva detto poco prima di lui lo storico olandese Huizinga.
Il gioco, infatti, è una attività che ha in se stessa, il suo fine, dunque una attività libera, a differenza del lavoro che ha il suo fine fuori di sè.


Non è certo la serietà che distingue il lavoro dal gioco.
Anzi Pascoli parla di «gioco serio al pari del la­voro» e per un “socialista” era già molto!
In realtà il vero gioco è molto più serio del lavoro.
Quando gioca, l'uomo è come Dio che creò il mondo «per gioco».
I sociologi della nostra ci­viltà la definiscono anche “ludica”, cioè una civiltà dove il “ludus” è prevalente sul lavoro.
E davvero tutto sembra, oggi, un gioco.
Gioco la politica, gioco la scuola, gioco gli audiovisivi, gioco le lotterie in numero sempre crescente. Gioco l’amore, sia quello reale, che quello virtuale; gioco l’evasione chimica …in un’“altro mondo”. Gioco la discoteca, gioco lo sport, il casinò e le corse dei cavalli.
Segno che l'uomo senza gioco non può vivere.
Ma non sempre ciò che viene chiamato gioco lo è vera­mente.
Basterebbe pensare allo sport, che con lo spirito religioso di Olimpia non ha più molto in comune e si è trasformato fu industria e spettacolo.
Merito non piccolo di que­sto elegante e raffinato saggio è di saper cogliere, in ogni manifesta­zione della vita, la presenza del gioco, e, insieme, la sua degenerazione, che mai aveva rag­giunto i livelli del nostro tempo.
Si pensi alla caccia: un gioco da sempre, dato che l’uomo, a differenza dell’ani­male, la esercitava senza motivi di utilità, spesso in collega­mento con la religione.
Ma oggi è sempre meno gioco: le armi della caccia, dal me­dioevo a oggi, si sono a tal punto perfezionate, da eliminare ogni rischio.
Al contrario di quanto ancora av­viene in uno dei giochi, anzi dei riti, più carichi di senso, la corrida (alla quale il libro dedica delle pagine stupefacen­ti).


Dove il gioco raggiunge il massimo di gioia e soddisfa­zione è nell’amore: «Che gli innamorati siano sufficienti a se stessi, che non desiderino altro che se stessi, che la pura inclinazione, che non si con­fonde con un fine o un utile, non conosca neppure fine ed utile, nè sopporta di esservi vincolata, tutto ciò l'avvicina al gioco».
Un gioco oggi lar­gamente perduto.
Dato che non è gioco, l’eros tranquil­lante e distaccato, cui spesso lo si riduce negli spot (“far bene l'amore fa bene all’amore”) , quasi alla stregua di una pillola o di una “dose”...


Il sentimento vi è sottomesso al calcolo della ragione stru­mentale: «È ridicolo dire che l'amore è sport, esercizio fisi­co, ginnastica. Che non sono più giochi puri, cioè privi di qualsiasi relazione con uno scopo o un utile al di là del gioco».
La crisi della civiltà occi­dentale, nonostante la sua ricchezza, le sue perfezioni tecnologiche, appare in tutta evidenza nell’incapacità di giocare, ossia di realizzare nel gioco il trinomio salvifico di libertà, legge e piacere.
Senza negare l’utilità del lavoro, Junger ripropone il gioco vero, quello di che tutte le civiltà tradizionali sono state capaci. Quello per cui Eraclito vede­va «nel tempo, il regno di un bambino che gioca con le tessere di una scacchiera»; quello per cui Nietzsche po­teva affermare che «nel gioco, ciò che è inutile, può essere considerato come l’ideale dell’uomo sovraccarico di forza»