A più di sessant’anni dalla morte, l’acuta e arguta opera del fratello del famoso Ernst Junger consente di leggere a fondo le ragioni di una crisi epocale.
In questa lenta grigia estenuante agonia dell’Occidente
dove cercare una salvezza?
Nella politica?
Nella tecnologia?
Nel sesso selvaggio o nella meditazione
trascendentale?
Nella rivoluzione o nelle riforme?
Nell’ingegneria genetica o nei mondi virtuali?
La strada giusta, secondo Friedrich George Junger (1898-1977) è un'altra: il gioco.
È una ricetta “dettata” da Schiller nel 1795 e
ripresa da tutti quei maestri del “pessimismo culturale”, come Schopenhauer, Nietzsche, Rilke, Spengler e Benn, ai quali Junger si collega.
Friedrich George Junger è il fratello minore del più
famoso Ernst
(1895-1998) la ideò in un libro del 1953, che circa dieci anni fa è stato
portato a conoscenza dei lettori italiani: “Saggio sul gioco. Una chiave per comprenderlo"
(Ideazione editrice).
È passato più di mezzo secolo dopo, ma quel libro è
ancor più valido che mai, dato che nell’intervallo di tempo, le intuizioni
dell’autore sono state confermate, purtroppo, ad abundantiam: una civiltà che non sa più giocare, è condannata
alla decadenza.
Il gioco, infatti, è una parte integrale della
festa e la sua ciclicità attribuisce un senso cosmico e antropologico alle
ricorrenze dell’anno.
La festa è il giorno in cui non si lavora, ma si
gioca, è il tempo libero che consente l’espressione gioiosa della personalità.
Oramai invece abbiamo perduto il senso del “giorno di festa”.
La nostra civiltà del tutto-mercato che valuta il
progresso del paese dall'incremento della produttività lavorativa e per la
quale, la domenica restano aperti i mega-stores,
secondo l'imperativo del consumismo “compra e fuggi”, ha reso la questione difficilmente
comprensibile.
Il grande scienziato Carlo Linneo definì l’uomo “sapiens”, in base alla sua grandezza in
quanto “pensante”, soprattutto quando si stacca dall’utile e diviene “speculazione”; Bergson
lo definì “faber”, perché fabbrica
il mondo con la scienza e la tecnica.
Per Junger
la grandezza dell’uomo e soprattutto nel gioco: “homo ludens”, come aveva detto poco prima di lui lo storico
olandese Huizinga.
Il gioco, infatti, è una attività che ha in se
stessa, il suo fine, dunque una attività libera, a differenza del lavoro che ha
il suo fine fuori di sè.
Non è certo la serietà che distingue il lavoro dal
gioco.
Anzi Pascoli parla di «gioco serio al pari del lavoro»
e per un “socialista” era già molto!
In realtà il vero gioco è molto più serio del
lavoro.
Quando gioca, l'uomo è come Dio che creò il mondo
«per gioco».
I sociologi della nostra civiltà la definiscono anche “ludica”, cioè una
civiltà dove il “ludus” è prevalente sul lavoro.
E davvero tutto sembra, oggi, un gioco.
Gioco la politica, gioco la scuola, gioco gli audiovisivi, gioco le
lotterie in numero sempre crescente. Gioco l’amore, sia quello reale, che
quello virtuale; gioco l’evasione chimica …in un’“altro mondo”. Gioco la discoteca, gioco lo sport, il casinò e le corse dei cavalli.
Segno che l'uomo
senza gioco non può vivere.
Ma non sempre ciò
che viene chiamato gioco lo è veramente.
Basterebbe pensare
allo sport, che con lo spirito religioso di Olimpia non ha più molto in comune
e si è trasformato fu industria e spettacolo.
Merito non piccolo di questo elegante e raffinato
saggio è di saper cogliere, in ogni manifestazione della vita, la presenza del
gioco, e, insieme, la sua degenerazione, che mai aveva raggiunto i livelli del
nostro tempo.
Si pensi alla caccia: un gioco da sempre, dato che
l’uomo, a differenza dell’animale, la esercitava senza motivi di utilità,
spesso in collegamento con la religione.
Ma oggi è sempre meno gioco: le armi della caccia,
dal medioevo a oggi, si sono a tal punto perfezionate, da eliminare ogni
rischio.
Al contrario di quanto ancora avviene in uno dei
giochi, anzi dei riti, più carichi di senso, la corrida (alla quale il libro dedica delle pagine stupefacenti).
Dove il gioco raggiunge il massimo di gioia e
soddisfazione è nell’amore: «Che gli
innamorati siano sufficienti a se stessi, che non desiderino altro che se
stessi, che la pura inclinazione, che non si confonde con un fine o un utile,
non conosca neppure fine ed utile, nè sopporta di esservi vincolata, tutto ciò
l'avvicina al gioco».
Un gioco oggi largamente perduto.
Dato che non è gioco, l’eros tranquillante e
distaccato, cui spesso lo si riduce negli spot (“far bene l'amore fa bene all’amore”) , quasi alla stregua di una
pillola o di una “dose”...
Il sentimento vi è sottomesso al calcolo della
ragione strumentale: «È ridicolo dire
che l'amore è sport, esercizio fisico, ginnastica. Che non sono più giochi
puri, cioè privi di qualsiasi relazione con uno scopo o un utile al di là del
gioco».
La crisi della civiltà occidentale, nonostante la
sua ricchezza, le sue perfezioni tecnologiche, appare in tutta evidenza nell’incapacità
di giocare, ossia di realizzare nel gioco il trinomio salvifico di libertà,
legge e piacere.
Senza negare l’utilità del lavoro, Junger
ripropone il gioco vero, quello di che tutte le civiltà tradizionali sono state
capaci. Quello per cui Eraclito vedeva
«nel tempo, il regno di un bambino che
gioca con le tessere di una scacchiera»; quello per cui Nietzsche poteva affermare che «nel gioco, ciò che è inutile, può essere
considerato come l’ideale dell’uomo sovraccarico di forza»
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