Il silenzio è attesa di una comunicazione?
E parafrasando una citazione famosa di Gotthold Ephraim Lessing potremmo dire «l’attesa della comunicazione è anch’essa comunicazione»?
In un mondo in cui il frastuono è il compagno di ogni attimo
della nostra giornata, il silenzio è davvero assenza di comunicazione?
Nelle nostre vite, regno della comunicazione più sfrenata, il silenzio è
diventato più raro della tigre albina o della foca monaca.
Eppure il conte Giacomo Leopardi scrisse che «il silenzio è il linguaggio di tutte le forti passioni, dell'amore (anche nei momenti dolci) dell'ira, della maraviglia, del timore».
Il linguaggio non è soltanto rappresentato da quello che viene esplicitato verbalmente, ma la vera comunicazione nasce proprio dal “non detto”, da ciò che viene omesso in una comunicazione verbale.
Il silenzio non significa mancanza di parole, significa sforzarsi ad andare oltre, penetrare la persona e comprendere quello che ci sta dicendo.
Solo un linguaggio che prevede al suo interno un posto specifico per il silenzio è in grado di stabilire un contatto emotivo positivo con la realtà.
Comunicare nel silenzio è la più grande forma di dialogo che si possa raggiungere.
Il silenzio chiarisce più di ogni altra parola; ci aiuta a riflettere, a pensare, a conoscersi, a valutare, a goderci di più tutto quello che ci circonda. È un mezzo per arrivare alla nostra anima. È un mezzo per arrivare all’anima del nostro interlocutore.
Provate a chiedere ad un musicista l’importanza di una pausa in una sinfonia.
«Il silenzio è come il colore nella tavolozza del pittore,
che viene usato per un riflesso di luce o per marcare un’ombra». (M.
Brunello)
Nella musica, il silenzio all’interno di una composizione è usato per creare
un’emozione.
Oppure, chiedete ad un abile oratore o un attore quanto sia utile una pausa (ad
effetto!) per sottolineare una frase o un concetto!
E passiamo al ramo cromatico: il bianco è il silenzio del colore? Tutt’altro. Li riassume tutti.
Ergo, il silenzio è assenza di parole o una sorta di concentrato di parole?
Non vorrei fare della psicologia spicciola, ma anche nella nostra frenetica vita quotidiana, il silenzio spesso dice ciò che mille parole non potrebbero dire.
Nella comunicazione umana, c’è il silenzio che predispone
all’ascolto ed alla conoscenza, quello che scandisce la punteggiatura di una
relazione e quello che crea lo spazio in cui è possibile ascoltare in sé quanto
una comunicazione ha lasciato.
Il verso di una splendida canzone firmata da Paul Simon e Simon Garfunkel dice
«[...] the vision that was planted in my brain still remains, within the
sounds of silence» (la visione che era fissa nella mia mente, resta ancora
racchiusa nel suono del silenzio!).
Il silenzio è anche un essenziale stratagemma per imparare ad ascoltare: senza il silenzio non possiamo ascoltare e saper ascoltare è tanto difficile quanto saper parlare.
Per migliorare la qualità delle nostre relazioni, per comprendere fino in fondo l’altro, ma soprattutto per comprendere principalmente noi stessi, dovremmo tacere di più e imparare a riflettere, a vedere quello che gli occhi non possono vedere e ad ascoltare quello che le nostre orecchie non possono ascoltare.
Di certo non conoscono il consiglio che il filosofo Pitagora dava ai suoi discepoli: stare in silenzio per 5 anni.
Nella meditazione orientale, il silenzio è d’obbligo.
Ed anche in quella cristiana, l’acme della preghiera avviene nel deserto, cioè in silenzio.
Nella tv, invece, vera e propria “maestra” della nostra vita, vige l’assoluto divieto del silenzio.
Un “buco audio” di pochi secondi o di immagine (quella che chiamano “nero”) sarebbe capace di creare uno scompenso cardiaco nel direttore di produzione della trasmissione.
Il silenzio invade anche l’ambito della comunicazione creativa.
Un mondo dove nello spazio di uno spot si vorrebbe infilare di tutto, si riempiono quei 30” di parole come una lavatrice zeppa di panni (e le massaie ci possono insegnare che quando è troppo carica, non lava bene!).
Ecco che si arriva al paradosso di velocizzare le parole come il tipico epilogo degli spot di farmaci da banco «è-un-presidio-medico-chirurgico-può-avere-effetti-indesiderati-anche-gravi-leggere-attentamente-il-foglietto-illustrativo—non-somministrare-al-di-sotto-dei-dodici anni-se-il-sintomo-persiste-consultare- il-medico» che nessuno ascolta.
Eppure qualche decennio fa proprio uno spot geniale che diede
spazio al silenzio.
Si vedevano dei commensali seduti amabilmente attorno a una tavola imbandita,
ma non si sentiva alcun suono, men che meno un dialogo neppure sussurrato,
tanto da pensare che ci fosse un difetto audio.
Poi solo alla fine lo slogan (ideato da un genio della comunicazione come Lorenzo Marini), che come tutti i grandi claim sono entrati a far parte dei modi di dire: «Silenzio, parla Agnesi».
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