Anche la felicità obbedisce a regole matematiche? Parrebbe di
sì. E può essere calcolata con una formula neanche tanto complessa. La
felicità –spiega il professor Paolo Gallina, docente di Meccanica
alla Facoltà di Ingegneria dell’Università di Trieste ed esperto di robotica– è
«la variazione rispetto
al tempo dello stato di una persona».
In altre parole, la felicità è il passaggio da una
condizione peggiore a una migliore, ed è tanto più intensa quanto più in fretta
avviene questo cambiamento.
Ultimamente ho letto un articolo
sul sito di “Tribù Narrante” sulle regole essenziali per un racconto breve, partendo
dal «voyeurismo» in Julio Cortàzar.
Lo scrittore ed editore algherese Claudio
Calisai, (ma soprattutto un carissimo amico e persona speciale!) in questa
riflessione butta un sasso (senza nascondere la mano) che ha disseminato il
lago della mia mente di innumerevoli cerchi concentrici trasformando la sua superficie
in un impetuoso mare in tempesta.
«Per conoscere Julio Cortàzar, bisogna leggere un racconto di Julio
Cortàzar» scrivere Calisai. E se voleva creare suspence… c’è riuscito. Colpito
e affondato.
Rifacendosi al «Bestiario» di Cortàzar ha
analizzato in particolare «Le porte del
cielo» individuando alcuni punti da tenere a mente quando si scrive un
racconto.
La password dovrebbe essere
racchiusa in questa frase: «Il romanzo
vince sempre ai punti, mentre un racconto deve vincere per knock out».
Per Cortàzar occorre che il
segmento di vita o di vite descritte nel racconto sia congelato, ma come in un
ossimoro, deve essere vivo e mantenere
la sensazione di movimento tipica del romanzo e dei film. Poi si arriva
all’espediente definito “intensità” che consiste «nell’eliminazione di tutte le idee o le
situazioni intermedie, di tutti i riempitivi o le frasi di transizione che il
romanzo permette o addirittura esige».
Per Cortàzar il narratore deve
farci guardare (con cinismo!) dal buco della serratura per capire e sapere e
capire e far scattare la tensione narrativa.
Ma allora esiste davvero la
formula del trasmettere un’emozione? Per un racconto o un romanzo? Per un quadro? Per una sinfonia?
Possiamo fissare
dei paletti per rinchiudere ciò che -per dogma- è sinonimo di libertà come la
fantasia?
Esistono regole per incardinare ciò che per sua natura serve a rompere le catene e i cardini della banalità quotidiana?
Esistono regole per incardinare ciò che per sua natura serve a rompere le catene e i cardini della banalità quotidiana?
Possiamo costruire una barriera
per la fantasia?
O per citare un grande cantautore
«può uno scoglio arginare il mare?»
Da questo tsunami elucubrativo mi
è subito venuto in mente una frase del Dalai Lama «dobbiamo imparare bene le
regole in modo da infrangerle nel modo giusto».
Un altro grande genio come Pablo
Picasso, disse che occorre «imparare le regole come un professionista, in modo
da poterle rompere come un artista».
È più importante un decalogo di
regole o sapere trasmettere emozioni?
Questa potrebbe essere la posizione di uno studente frustrato, invece è l’opinione di un certo Wolfgang Johannes Goethe.
Il mondo del cinema -ad esempio-
ha tante attrici non certo bellissime secondo i canoni classici della bellezza
ma con carisma da vendere.
E l’arte della fotografia ha le
sue regole? O anche una foto sfocata può trasmettere emozioni?
E lo “storytelling” ha le sue regole?
La traduzione in italiano sarebbe
“racconto” (story) e “narrare” (telling) ma per la nostra esterofilia storytelling fa più cool… ops volevo dire, è più intrigante di “narrare un racconto”.
Lo storytelling contiene l’elemento aggiuntivo di raggiungere un obbiettivo di comunicazione. E qui torniamo a bomba: ci sono regole perché il messaggio trapassi ogni barriera e diventi narrazione personale dello spettatore?
Lo storytelling contiene l’elemento aggiuntivo di raggiungere un obbiettivo di comunicazione. E qui torniamo a bomba: ci sono regole perché il messaggio trapassi ogni barriera e diventi narrazione personale dello spettatore?
Quindi Pablo Picasso e il Dalai Lama vs Julio Cortàzar in singolar tenzone.
The winner is...
Passiamo un attimo in cucina.
Quando preparate un nuovo
manicaretto seguite in modo ferreo le regole del ricettario o aggiungete qualcosa di
personale?
Anche nella vita quotidiana siamo
obnubilati da regole.
“Pacta sunt servanda” (diceva
Ulpiano) e ci insegna come non ci si possa liberare unilateralmente dagli
obblighi assunti per contratto. Poi però Charles-Maurice principe
di Talleyrand-Périgord, ci lascia un consiglio che «l'eccesso di
zelo provoca effetti peggiori della non applicazione della norma».
A chi dare ascolto, dunque?
Gli esperti ci ricordano di non
incrociare mai le braccia e le gambe davanti al proprio selezionatore in un
colloquio di lavoro perché indicherebbe la volontà di tenere le distanze e di
chiusura, ma –personalmente– incrociare le gambe mi rilassa. Io incrocio le
gambe al cinema (infatti cerco sempre la fila di metà corridoio!) o seduto al
ristorante, in situazioni, quindi, in cui sono calmo e rilassato; io ad una
conferenza, nel momento di maggior attenzione, incrocio le braccia per concentrarmi
sull’ascolto.
Tutto ruota sulla percezione
individuale.
Fiumi di inchiostro sono stati
sprecati per ammonire i comunicatori di usare un certo font, un certo colore,
una certa impaginazione, per stupire il cliente, il quale però ragiona con il
suo cervello.
È (forse?) questo il motivo per
cui, ho sempre avuto un’allergia per l’adesione a gruppi politici, ideologici,
religiosi (pur accogliendone i loro principi generali). Accettarli globalmente e
insindacabilmente mi crea una sensazione di asfissia. Io non sono un numero di
tessera.
Ad esempio, vige il divieto di
portare bottigliette a bordo dell’aeromobile e al controllo di sicurezza
dobbiamo gettarle via. E non c’è spazio di trattativa. Il divieto è categorico.
Ho visto anche bimbi in
passeggino davanti al “gate” che frignavano obbligati da un integerrimo
controllore a separarsi dalla loro bottiglietta di succo di frutta.
Ottusità o elasticità?
Prendiamo un farmaco: non agisce allo stesso modo in tutti. Perché non siamo tutti uguali (mettetevelo in testa!). Non siamo un esercito di cyborg (come le convenzioni vorrebbero indurci a essere).
Prendiamo un farmaco: non agisce allo stesso modo in tutti. Perché non siamo tutti uguali (mettetevelo in testa!). Non siamo un esercito di cyborg (come le convenzioni vorrebbero indurci a essere).
Lo stesso Picasso ha lasciato un
altro aforisma «A quattro anni dipingevo come Raffaello, poi ho impiegato
una vita per imparare a dipingere come un bambino».
Non sarà che occorre trovare una
password per liberarci di tutte le infrastrutture e le “regole auree” che –come
strettissime catene– ci costringono a comportarsi come tanti cyborg
preprogrammati seguendo un novello pifferaio di Hamelin.
E a questo punto aggiungiamo il
detto evangelico “sinite parvulos venire ad me» (ovvero «lasciate che i bambini
vengano a me»), dove i bambini sono un esempio di libertà da regole
prefabbricate.
Una regola è da applicare in modo
ferreo o va interpretata e plasmata rendendola applicabile al caso in
questione?
Ed allora continuo a ripetere: ma
la letteratura e l’arte in genere hanno bisogno di regole?
Non ci si rende conto della forza
dell’individuo. E l’emozione nel leggere un racconto o un romanzo è quanto di
più individuale possa esistere.
Ayn Rand, scrittrice, filosofa e
sceneggiatrice statunitense di origine russa, ci ha lasciato scritto che «La
più piccola minoranza al mondo è l'individuo. Chiunque neghi i diritti
dell'individuo non può sostenere di essere un difensore delle minoranze».
E qui continuo a ripetere: la
letteratura, la pittura, la comunicazione e l’arte in genere hanno bisogno di
regole?
Che ne sarebbe del genio
di Vincent van Gogh se prendessimo come regola aurea la tecnica di
pittura di Caravaggio?
Che fine
farebbero Picasso, Klimt o Mondrian, a loro modo veri geni
dell’arte.
O che ne sarebbe delle poesie
ermetiche di Ungaretti se accettassimo come parametro lo stile
di Giacomo Leopardi o Dante?
L’emozione può forse essere
ammanettata da ceppi glaciali delle regole?
«Se si giudica un pesce dalla sua
abilità di arrampicarsi sugli alberi, lui passerà tutta la sua vita a credersi
stupido» disse il genio del '900 per eccellenza, Albert Einstein…
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